FINALMENTE UN PERMESSO PREMIO PER LO SCRIVANO DI REBIBBIA

L'esterno della Corte di Cassazione

25 Giugno 2023 :

Maria Brucale su L’Unità del 25 giugno 2023

La giurisprudenza di legittimità in materia di reati ostativi, dopo le sentenze della Cedu e della Corte costituzionale e la conseguente modifica normativa, si arricchisce di una importante sentenza, la n. 23556/2023, emessa dalla Corte di Cassazione, prima sezione penale. Ricorrente è Fabio Falbo, “lo scrivano di Rebibbia”, prezioso componente dei laboratori Spes contra Spem di Nessuno tocchi Caino, risorsa fondamentale per i compagni di detenzione, appassionato studioso del diritto con una vocazione autentica all’aiuto degli altri. Fabio è detenuto da molti anni e il suo percorso all’interno del carcere è riconosciuto da tutti gli operatori ma a oggi non ha mai usufruito di un permesso premio, strumento di importanza fondamentale nella riabilitazione perché è il primo momento di approccio con l’esterno utile a verificare la tenuta dei progressi già raggiunti e a costituire il punto di partenza per maturare ulteriori traguardi di libertà.
Secondo il tribunale di sorveglianza di Roma, Falbo non poteva essere meritevole della concessione del beneficio richiesto perché la sua mai smentita professione di estraneità ai crimini per i quali è stato condannato appariva, secondo i giudici, incompatibile con una concreta rivisitazione critica in una reale prospettiva risocializzante e rendeva non assolto l’onere probatorio previsto normativamente inerente alla recisione dei contatti con gli ambienti malavitosi di provenienza e all’impossibilità di ripristino di essi. Secondo il tribunale, se è lecito invocare il diritto al silenzio e alla speranza, occorre, tuttavia, che chi lo fa accetti le conseguenze dell’esercizio di tali diritti. Una affermazione, in realtà, sconcertante perché sembra scaturire dalla convinzione che l’esercizio di un diritto possa o debba comportare la soggezione a effetti negativi, perfino allo sbarramento ai percorsi di riabilitazione sociale.
Secondo la suprema Corte il tribunale di sorveglianza di Roma ha mancato al dovere di bilanciare la caratura criminale dei fatti commessi con il cammino rieducativo portato avanti dalla persona condannata “una comparazione che, invece, è specificatamente chiamato a compiere il giudice di sorveglianza. La funzione della magistratura di sorveglianza, in caso contrario, risulterebbe svilita alla semplice opera di constatazione in ordine alla oggettiva gravità dei delitti perpetrati dal condannato. Tale impostazione vanificherebbe qualsivoglia aspirazione al recupero personale riconoscibile in capo al detenuto laddove tale aspirazione non fosse correlata alla collaborazione dichiarativa con le istituzioni. Siffatta lettura delle norme si porrebbe peraltro in aperto conflitto con gli scopi rieducativi ai quali è indirizzato ogni genere di sanzione conforme ai principi costituzionali”.
In linea con precedenti decisioni, la Cassazione ribadisce l’illegittimità di un giudizio che orienti la decisione negativa su un binario di valutazione morale negando rilevanza a un percorso intramurario ineccepibile, immune da rilievi e improntato alla partecipazione al trattamento, alla formazione didattica, alla disponibilità all’attività lavorativa. La gravità dei reati commessi, insomma, non può inibire in radice la praticabilità di un bilanciamento in senso favorevole tra esigenze di difesa sociale e di riabilitazione della persona condannata. Non, dunque, sbarramenti astratti evocativi di un’etica indefinita posta a paradigma insuperabile ma valutazioni concrete di ogni dato specifico che possa consentire di ritenere che il soggetto si sia definitivamente incamminato verso un percorso di recupero. Valutazione in senso positivo che non necessariamente coincide con il rinvenimento di una intima e personalissima emenda da parte del condannato dovendosi invece riscontrare la sua propensione a recidere i collegamenti criminali e a non riannodarli in un’ottica dinamica di rieducazione che si nutre di tutti gli elementi di condotta emersi e dei comportamenti serbati.
La pronuncia della Cassazione sembra ricordare alla magistratura di sorveglianza la sua essenza e la sua funzione ordinamentale, quella di un giudice di prossimità, vicino al ristretto, che, attraverso visite frequenti in carcere, lo conosce, ne apprezza personalmente l’approccio con la pena e con il reato, lo accompagna al pieno recupero sociale in un’ottica non di fustigazione morale ma di verifica della assenza di pericolosità soggettiva.
* Direttivo di Nessuno tocchi Caino

 

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