EX DETENUTO CHIEDE DI TORNARE IN CARCERE: ‘SONO SPAVENTATO DAL MONDO ESTERNO’

14 Maggio 2022 :

Detenuti non si nasce, si diventa dopo avere elaborato la separazione dal mondo, dagli affetti, dalle relazioni e inizia la costruzione, dolorosa, della nuova identità che, per non andare in frantumi, dovrà adattarsi a una diversa dimensione e convivere e sopravvivere sino al momento in cui, forse, presto o tardi, le porte si riapriranno per tornare in libertà.
Nel frattempo, prevede la legge e la Costituzione, il sistema penitenziario ha il dovere di assicurare quei percorsi tesi a restaurare il legame sociale interrotto con la commissione del reato e favorire il graduale reinserimento nella comunità attraverso un processo di autodeterminazione e responsabilizzazione che permetta al detenuto di riappropriarsi della vita.
Senonché le cronache e le statistiche ci rimandano storie di recidiva e di smarrimento. Come quella dell’ex detenuto della Casa circondariale di Gazzi, a Messina, che in piena notte ha bussato al carcere chiedendo di essere accolto perché “spaventato dal mondo esterno”. Voleva tornare in cella: solo lì avrebbe potuto soddisfare i suoi bisogni primari: mangiare, dormire, lavarsi. Fuori non aveva trovato ospitalità e tantomeno lavoro. Una storia triste certo, ma che rappresenta il fallimento della società così detta civile, totalmente impreparata a ri-accogliere i suoi cittadini. Una storia di ordinaria disperazione che coinvolge la stragrande maggioranza dei detenuti, in particolare quelli che erano già poveri ed emarginati prima di finire in carcere. Spesso abbandonati dalle famiglie, privi di occupazione e di punti di riferimento, preferiscono la carcerazione a una libertà che non offre nulla.
Quando il detenuto esce dal carcere dopo un lungo periodo di detenzione non è più capace di vivere all’esterno. Talvolta non conosce neppure il valore del denaro e non è in grado di svolgere le più elementari attività. L’uscita dal carcere è, per i più, stordimento, paura, incapacità di orientarsi all’interno di spazi troppo ampi rispetto ai quattro metri della cella.
Nella casa di reclusione di Oristano/Massama il tratto di maggiore sofferenza attiene proprio all’assenza di un percorso trattamentale sorretto da progettualità, iniziative culturali e formative e da quelle attività in grado di vincere la condizione di ozio forzato, annichilimento e solitudine in cui vengono costretti i detenuti.
La distanza ideale e fisica con la comunità, la mancanza di rapporti con le Associazioni e le istituzioni che operano nel territorio - delle quali percepiscono l’indifferenza se non il fastidio - viene percepita come frustrazione di ogni possibile prospettiva di inclusione. Eppure il coinvolgimento del territorio nell’attuazione di diritti sarebbe il modo migliore per radicarli, perché vengano assimilati anche sul piano culturale e del consenso sociale. Non assistenzialismo, ma impegno che è anche controllo in grado di accrescere e favorire la sicurezza.
L’alternativa è quella di lasciare i detenuti nella loro condizione di isolamento e rassegnazione, abbandonarli alle loro esistenze sospese, al sovraffollamento strutturale, alla promiscuità, alla mancanza di intimità, ma soprattutto alla perdita di ogni speranza di recupero. Ed è proprio l’assenza di questa prospettiva, la mancanza di un senso della vita, l’inutilità del trascorrere del tempo la causa principale della maggior numero di suicidi e di atti di autolesionismo.
Da qui l’urgenza di un’azione combinata fra comunità e struttura carceraria che consenta - in una sinergia fra Enti, Associazioni laiche e religiose, Istituzioni e singoli cittadini - di accompagnare il detenuto che ha scontato la sua pena nel cammino di recupero alla vita aiutandolo a orientarsi in una nuova realtà. Alla quale è del tutto impreparato per quel processo di infantilizzazione e regressione a cui viene sottoposto durante la vita inframuraria e che lo rende incapace di muoversi all’interno di spazi e condizioni sensoriali, lavorative, affettive oramai sconosciute.
Solo con la partecipazione attiva della collettività ai progetti di reinserimento sociale sarà possibile realizzare la pienezza dei diritti della popolazione detenuta e la limitazione del ricorso al carcere. Un importante e non più rinviabile operazione culturale a cui tutti siamo chiamati in una prospettiva di “rieducazione” della società stessa e di formazione di una coscienza civica.

* Presidente della Camera penale di Oristano

 

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