04 Febbraio 2024 :
Elisabetta Zamparutti su L’Unità del 4 febbraio 2024
Guerra deriva dal tedesco antico werra che esprime il senso del disordine proprio della mischia in cui i corpi, nello scontro, si aggrovigliano e si macellano secondo quella modalità di combattimento che connotava le popolazioni germaniche antiche, “barbare” appunto. Guerra e barbarie camminano insieme. Tant’è che dove c’è guerra c’è barbarie. Meno scontato ma altrettanto vero è che dove c’è barbarie c’è guerra. Come definire infatti la carneficina delle esecuzioni capitali in Iran se non come una guerra del regime teocratico nei confronti del suo stesso popolo?
Nell’anno che si è da poco concluso sono state giustiziate almeno 883 persone secondo il monitoraggio quotidiano di Nessuno tocchi Caino (almeno 850 secondo Iran Human Rights Monitor). Solo una minima parte di questa macellazione, il 17%, è stata resa pubblica dai mezzi di informazione. Eppure parliamo di una media di più di due persone fatte penzolare ogni giorno con una corda intorno al collo secondo un orrido ritmo confermato da questo primo mese del 2024 che ha visto almeno 70 giustiziati in 31 giorni. Una mattanza talmente vergognosa che è lo stesso regime che la vuole tenere nascosta. Mi ricorda la segretezza che avvolgeva l’industria della morte del campo nazista di Auschwitz, ben descritta dal medico ebreo ungherese Miklos Nyiszli nel libro curato da Augusto Fonseca “Sono stato l’assistente del dottor Mengele”.
La barbarie, come la guerra, comporta l’eclissi del senso di umanità per come questo è andato definendosi anche nelle norme di diritto internazionale cogente, perché da tutti condivise, che vietano la pena di morte nei confronti di chi era minorenne al momento del fatto o abbia compiuto reati non di sangue legati alla droga. La barbarie iraniana è giunta l’anno scorso a impiccare 7 minorenni e 494 condannati per reati legati alla droga. Quanto alle 27 donne giustiziate, prima dell’aggrovigliarsi della corda al loro collo ci sono stati i processi ingiusti attorcigliati ai loro corpi abusati da mariti che alla fine hanno ucciso per difendersi.
Avviluppati da processi privi delle garanzie minime sono stati anche i corpi dei 20 giustiziati per motivi politici nel 2023. Tra loro i partecipanti alle manifestazioni “Donna, vita, libertà” come Mohammad Ghobadloo, giustiziato a Karaj lo scorso 23 gennaio. Gli era stata scagliata addosso l’accusa di Moharebeh (guerra contro Dio) e corruzione in terra per aver investito con la sua auto e ucciso un agente di polizia durante le proteste scatenate dalla morte di Mahsa Amini. Soffriva di un disturbo bipolare e la sua esecuzione era stata annullata dalla Prima Sezione della Corte Suprema. Eppure, nella mischia del disordine anche istituzionale del regime iraniano per cui un tribunale non rispetta quello che dispone un altro, è finito sulla forca, undicesimo manifestante dopo Mohsen Shokati, Majidreza Rahnavard, Mohammad Mehdi Karami, Mohammad Hosseini, Saleh Mirhashemi, Majid Kazemi, Saeed Yaghoobi, Milad Zahrawand, Mohammad Ramz Rashidi e Naeim Hashemi Qatalli.
Dallo stesso carcere di Karaj è giunta il 29 gennaio la tremenda notizia dell’esecuzione di altri quattro prigionieri politici curdi: Pejman Fatehi (28 anni), Mohsen Mazloum (27 anni), Vafa Azarbar (26 anni) e Mohammad (Hajir) Faramarzi (28 anni). Erano stati arrestati a Urmia il 22 giugno del 2021 e da allora non hanno mai potuto avere alcun contatto, visite o telefonate, con i propri familiari. L’unica visita è stata concessa poco prima dell’esecuzione. Durante la loro detenzione in una località tenuta segreta, con l’accusa di spionaggio a vantaggio di Israele, hanno subito torture che li hanno portati ad autoaccusarsi davanti alla telecamera. Immagini che poi sono state diffuse attraverso i canali del regime iraniano.
Occorre porre fine a questo barbaro disordine interno se vogliamo far terminare le minacce all’ordine internazionale. Ma per stabilire in Iran un ordine basato sull’armonia dei diritti umani universali bisogna che cambi il regime dei mullah e che cambino registro i paesi democratici, perché è stata la loro ultradecennale politica dell’accondiscendenza a mantenerlo immutato se non a renderlo peggiore.