15 Ottobre 2023 :
Ilario Nasso* su L’Unità del 15 ottobre 2023
Esiste un sofismo, tanto comune quanto rovinoso per la logica e l’amore di verità: si chiama “argomentum ad hominem”, e – latinorum a parte – significa spostare l’attenzione dall’oggetto del discorso alla persona dell’interlocutore. Un espediente retorico, con il quale liberarsi del fastidio di proporre argomenti, sostituendoli con insinuazioni. Insomma, un passaggio subdolo: dal confronto leale all’aneddotica umorale. È ciò a cui stiamo assistendo in questi giorni di ennesimo (ma aggravato) livore anti-giudiziario.
Una giudice è chiamata a stabilire se il trattenimento di un richiedente asilo sia legittimo. Esamina il caso, la storia del migrante, la sua provenienza. Compie le proprie valutazioni, raggiunge una conclusione, redige una motivazione. E in quell’istante viene scippata della tranquillità: travolta da illazioni, contumelie, ludibrio mediatico.
Ecco presenti tutti gli ingredienti dell’operazione delegittimante: I) personalizzazione del provvedimento: non è un Tribunale a pronunciarsi, ma un magistrato-persona fisica, pronto da screditare alla bisogna; II) rimozione del merito: si prescinde dai contenuti della decisione, il contesto evapora e la conseguente alluvione denigratoria aggira il fatto concreto; III) ribaltamento della motivazione: si additano all’opinione pubblica stralci del provvedimento in nulla riconducibili al pensiero autentico del decisore. Insomma, il “cherry-picking” degli inglesi: estrapolazione di frasi senza valenza decisoria, nondimeno sbandierate come il succo del ragionamento.
Ma la vicenda non è solo un inquietante episodio d’insofferenza per i controlli indipendenti su legalità e diritti: è assai più disturbante.
Da dove sono improvvisamente arrivate le riprese della magistrata – unitasi a una manifestazione indetta da svariate associazioni umanitarie – sbattute prontamente sui social? La Polizia di Stato afferma di non possederle, eppure il video risulta girato non dal lato dei presenti, ma da quello degli agenti. Quale apparato pubblico, allora, ne ha conservato per tutto questo tempo la disponibilità? E come mai dei politici hanno potuto visionarlo, spiattellandolo subito dopo sui loro profili? A quale scopo, inoltre, si chiama in causa l’imparzialità del magistrato (lesa – secondo alcuni frettolosi commentatori – dalla mera partecipazione a un’iniziativa solidaristica)? Forse per fare del giudice un funzionario acefalo, sempre congruente ai dettami delle maggioranze di turno, e avulso dal tessuto sociale?
L’imparzialità è la declinazione processuale della trasparenza del potere. Non va temuta, allora, la (inesistente) faziosità di un giudice pensante, coerente con le proprie idee al punto da metterci la faccia in modo pacifico. La terzietà del giudice – in sostanza – non implica lo spegnimento del cervello, e – con esso – dei propri ideali di giustizia sociale, ma l’indisponibilità al sotterfugio e al compromesso: assicurata proprio da chi giudica motivando con serenità e attenzione, senza aspettative né paure.
Bisogna, infine, avere chiaro il problema principale. Difendere la reputazione e la dignità lavorativa di una magistrata, infangata a partire da un video conservato per anni e ricomparso a orologeria, è solo il mezzo per tutelare – molto semplicemente – la democrazia costituzionale, bene comune di tutti i cittadini. Indirizzare il dibattito – come disonestamente accaduto in questo caso – sulla coppia concettuale esposizione-riservatezza di un giudice fa solo il gioco di chi non sta ai fatti, ma campa di diversivi.
La questione essenziale, infatti, non è la sobrietà pubblica del magistrato, bensì lo scivolamento da una democrazia parlamentare a un’autocrazia elettorale, in cui si montano istantanee e pervasive campagne d’odio contro gli autori di decisioni giudiziarie motivate, relative a diritti inviolabili di esseri umani: i quali – in uno Stato di diritto – prevalgono sugli obiettivi contingenti di un governo così come sulle isterie collettive, sempre a caccia di «nemici della nazione» anche in chi si limita a fare il proprio mestiere su base tecnica.
E che il rischio sia quello autoritario è dimostrato dalla reazione istintuale di alcuni esponenti di governo: ribadire – per tutta risposta – un’imminente revisione costituzionale, puntualmente brandita come punizione, davanti a un caso di giurisdizione sgradita al manovratore.
*Giudice del Tribunale di Vibo-Valentia, socio di Nessuno tocchi Caino