09 Aprile 2022 :
Saeed Eghbali* su Il Riformista dell’8 aprile 2022
Ero un bambino di pochi anni quando ho visto la morte dimenarsi nella piazza principale della mia città. Poi, a Rajai-shahr, ho sentito di persona cosa vuol dire l’esecuzione. Ricordo il mio caro amico e compagno di cella Behnam Mahjoubi, a cui hanno messo il cappio al collo e si è spento davanti ai miei occhi. Tuttora, quando guardo la sua foto attaccata sopra il mio letto, il mio cuore brucia; ricordo la mia solitudine e il mio pianto straziante sotto la doccia. Per le persone come me, appartenenti alla classe più bassa e dimenticata della società, in presenza dell’oppressore, è normale morire e perdere tutto: la vita, le proprietà, il lavoro, i sogni, la pace, l’amore, tutto! Nella nostra classe sociale perdi tutto, o per meglio dire ti derubano di tutto.
Nella prigione di Rajai-shahr c’è un luogo chiamato “Suite”, celle di isolamento che sono usate in modi diversi: come punizione di chi litiga, per chi sciopera e per chi commette cosiddetti “reati di carcere”. Ma la cosa più spaventosa è il trasferimento in queste celle dei condannati a morte. Prima dell’esecuzione, che avviene ogni mercoledì mattina, due o tre e, a volte, anche più di dieci prigionieri sono trasferiti in questo luogo, vicino alla nostra attuale sezione, la 4. I funzionari della prigione e il pubblico ministero partecipano a questo rito. Ogni martedì sera, dalle finestre recintate della mia cella, sento il rumore delle auto nel viavai laborioso dei celebranti il macabro rito. Voci familiari che si sono annidate nei mattoni di questa prigione dagli anni ‘80 sino a oggi.
Il suono delle macchine mi ricorda Zanyar e Loghman, dei quali nemmeno si sa dove siano stati seppelliti. Ricordo tutti i volti che ho visto nella sala delle visite e nel corridoio principale.
Ogni martedì sera mi chiedo a chi tra loro il cappio stringerà il collo. Tutti mi ricordano il mio caro Behnam. Ogni volta che con pretesti vari chiamano i loro nomi, impallidiscono e per darsi speranza, anche per un momento, scherzano e, ridendo, dicono ai loro compagni della sezione: ragazzi ci scuserete... Prima di ogni martedì, le giornate sono colme di angoscia nel timore di essere picchiati con bastoni e mazze e portati nella “Suite” ammanettati e legati, che poi il mercoledì mattina si tira una leva e fine.
Quanti esseri umani sono morti e sono tornati in vita mille volte prima della morte in un luogo solitario che trasuda fetore dalle sue mura e nel freddo di ossa bruciate! I farmaci e le pillole che i funzionari della prigione danno al condannato a morte negli ultimi istanti della sua vita per alleviarsi la coscienza non rispondono alla domanda: perché dovrei morire? Chi decide che morirò? Un uomo di 80 anni che si considera il rappresentante di Dio sulla terra?! Conosco persone che hanno passato notti attaccati muro a muro alla cella di un condannato a morte. I gemiti e le urla, il rumore delle catene alle mani e ai piedi, delle percosse ricevute dalle guardie, non sono ancora usciti dalle loro orecchie!
Ho trascorso un periodo nella sezione 209, nella cella 113, con Esmail e Khosrow, condannati a morte e alla fine giustiziati prima che io lasciassi la sezione. La radice di ogni omicidio, stupro e rapina si può scoprire nella struttura di un regime che di per sè genera povertà, ingiustizia e sopraffazione, corruzione, morte e oppressione. In ogni condannato a morte riconosco me stesso. Era della stessa classe di persone i cui sogni e aspirazioni sono stati annientati nel mondo di tenebre creato dalla Repubblica Islamica. E ora deve affrontare la morte con i piedi tremanti.
L’autore di questo racconto non è Saeed Eghbali di Rajai-shahr: è l’operaio precipitato dalla cima del palazzo o chi dorme la notte nelle tombe a Behesht Zahra o la prostituta che le hanno incendiato il corpo e l’anima o la bambina che cerca la sua infanzia nella spazzatura o il tossicodipendente che viene trovato sotto il ponte congelato con una siringa in mano o l’ambulante che ha lividi sotto gli occhi. Oppure chi ogni giorno in quest’aria che sa di morte viene giustiziato. Ecco, tutte queste persone sono io! Nonostante tutte queste esperienze che crocifiggono l’esistenza umana, sappiano i potenti impotenti, non ci pieghiamo la schiena sotto il peso di tali sofferenze; ogni cappio, ogni proiettile e bastone che riservate al nostro popolo ci rende più determinati e avvicina la vostra fine.
In memoria dei cari fratelli Hamzeh Savari, Zanyar e Loghman Moradi, Farzad Kamangar, Ali Saremi, Gholam Reza Khosravi, Ramin Hossein Panahi, Reyhaneh Jabbari e Shirin Alam Holi.
* La lettera del prigioniero politico Saeed Eghbali, tradotta da Esmail Mohades, è uscita dalla prigione di Rajai-shahr il 24 marzo e il giorno dopo è stata pubblicata sul sito di Iran Human Rights Monitor