BASTA GRIDARE ALLA MAFIA DOVE LA MAFIA NON C’È

19 Giugno 2021 :

Miriam Romeo su Il Riformista del 18 giugno 2021

La parola è l’arma più potente del mondo. Essa può ferire e distruggere vite umane senza lasciare alcun segno visibile sul corpo ed è, al contempo, in grado di guarire l’animo umano offrendosi come dono gentile all’ascoltatore bisognoso di conforto.
È potente anche perché ha il potere di plasmare ciò che ci circonda. Wittgenstein sosteneva, infatti, che i limiti del proprio linguaggio sono i limiti del proprio mondo, nel senso che la nostra stessa capacità di intendere il mondo è dettata dalle parole che utilizziamo per descriverlo.
Ho passato anni a domandarmi perché la mia terra natia, la Sicilia, fosse considerata solamente come la culla della mafia, terra di Caino. Crescendo, mi sono resa conto che vi è una narrazione tipica – utilizzata specialmente nei momenti in cui si tratta di raccontare le vicende giudiziarie legate agli imprenditori del posto – che, per farla breve, è un po’ così: in Sicilia, se hai un’impresa florida, se hai superato l’asticella del reddito sufficiente ad alimentare sospetti, vuol dire che sei un mafioso o che hai fatto affari con la mafia. Tertium non datur.
Io ingenua non lo sono mai stata e non ho mai pensato di negare l’esistenza di questo terribile cancro, tuttavia, sono sempre stata intimamente convinta che questa non fosse l’unica narrazione possibile e che il linguaggio utilizzato negli ultimi vent’anni sia stato causa di una gravissima mistificazione della realtà.
La mia intima opinione è divenuta concreta certezza nel momento in cui mi sono ritrovata a studiare le misure di prevenzione e le assurdità di un sistema in cui il sospetto fa da padrone e il cui procedimento rinnega le garanzie fondamentali.
In questo settore, infatti, il linguaggio utilizzato dagli “esperti” per descrivere le operazioni in atto è stato il peggiore possibile: “beni sequestrati alla mafia”, “maxi-sequestro ai mafiosi” ... e chi più ne ha più ne metta. Nessuno che si premurava di spiegare che si trattasse soltanto di clickbaiting, che nei procedimenti di prevenzione non si svolge l’accertamento di alcun reato e che, se si vuole essere certi di aver sequestrato dei beni alla mafia, quella vera, bisogna agire tramite un processo penale.
Le storie sulle misure di prevenzione vedono spesso come protagonisti soggetti assolti in un processo penale o mai rinviati a giudizio ma considerati, allo stesso tempo, “socialmente pericolosi”, con buona pace del principio di presunzione di innocenza. Eppure, queste storie sono passate troppo spesso in sordina, inabissate da un linguaggio che ha trasformato le vittime in carnefici, macchiate per sempre da parole infamanti come “mafioso” trasformatesi in lettere scarlatte, pronte a sottolineare in ogni tempo un’indefinita nube di sospetto, anche quando sentenze e decreti urlano a gran voce l’estraneità da ogni forma di criminalità.
Io con le misure di prevenzione non c’entravo nulla o, quantomeno, non le ho mai conosciute personalmente. La mia storia non si aggiunge a quella delle vittime di certa antimafia ma è quella di una studentessa di Giurisprudenza che ha deciso di stare dalla loro parte.
Per questo mi sono iscritta a Nessuno tocchi Caino, per aiutare i numerosi imprenditori innocenti a uscire dal cono d’ombra nel quale per molto tempo si sono rifugiati. È giunto il momento di cambiare la narrazione, di squarciare il velo di Maya e far conoscere la vera realtà ma per farlo bisogna essere in molti, unirsi in “social catena”.
È per questo che è stato ufficialmente istituito il Comitato di Nessuno tocchi Caino sulle Misure di Prevenzione, di cui ho l’onore (e l’onere) di essere la Segretaria, insieme a Massimo Niceta in qualità di Presidente e Pietro Cavallotti nel ruolo di Portavoce. La costituzione è avvenuta, simbolicamente, all’Abbazia di Santa Anastasia di Castelbuono, un bene prezioso creato e custodito con amore dall’ingegnere Francesco Lena e dalla moglie Paola, all’improvviso sequestrato e, dopo un lungo calvario giudiziario, restituito ai suoi legittimi proprietari con un mare di debiti.
La parola come dono, come conforto, è lo strumento che Pietro e Massimo utilizzano da tanti anni per supportare altri imprenditori come loro, ricordandogli, come nel dialogo di Plotino e di Porfirio, l’importanza del confortarsi e incoraggiarsi per “compiere nel miglior modo questa fatica della vita”.
La nostra forza è la nonviolenza che non è mai protesta ma proposta, dialogo con il potere. Per affrontare questo dialogo bisogna, però, conoscere. È necessario informare per riformare, perché nessun cambiamento sarà mai possibile se prima non avremo sensibilizzato l’opinione pubblica su quest’amara realtà.
Fra i nostri strumenti: la realizzazione di un docu-film sulle misure di prevenzione e di un libro dal titolo “Quando prevenire è peggio che punire”, e la predisposizione di ricorsi alle alte giurisdizioni in collaborazione con l’Università di Ferrara.
Ci impegneremo in tutto questo. Lo faremo avendo cura delle parole da usare, scegliendole sempre con cautela ma con la giusta dose di ribelle coraggio.

 

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