28 Marzo 2006 :
Abdur Rahman, il cittadino afghano che rischiava la pena di morte per essersi convertito al cristianesimo, e' uscito di prigione. Lo ha detto il ministro della giustizia afghano, Sarwar Danish. Subito dopo e' stato portato in una struttura medica, ha dichiarato un alto funzionario, il quale ha aggiunto che Rahman e' ancora sotto la custodia delle autorita' giudiziarie afghane."E' stato liberato ieri sera" ha dichiarato il ministro, spiegando i motivi per cui c’è stato il rilascio. "L'atto di accusa presentava degli errori tecnici che hanno indotto il tribunale a interrompere il processo. Inoltre la figlia e i suoi cugini hanno dichiarato che Abdul Rahman aveva dei problemi mentali", ha detto Danish. In precedenza il procuratore aggiunto di Kabul, Mohammed Ishaq Aliko, aveva annunciato che Rahman era "libero di uscire dalla prigione". Abbiamo inviato - aveva aggiunto - "una lettera in questo senso al ministero della Giustizia". Il ministro degli Esteri italiano, Gianfranco Fini, chiederà domani al Consiglio dei ministri di concedere a Rahman ospitalità in Italia. Fini ha parlato in mattinata con l'ambasciatore d'Italia a Kabul, che gli ha confermato il rilascio nella notte di Rahman e la sua richiesta di asilo alla comunità internazionale, confermata anche ieri dall'Onu. Numerosi paesi avevano sollecitato il governo afghano ad assicurare il rispetto dei diritti umani come la libertà di religione e quindi il proscioglimento di Rahman. Anche il Papa aveva scritto al Presidente Hamid Karzai.
Il caso Rahman è stato risolto grazie a vizi procedurali, una soluzione formale individuata dal governo per evitare le proteste della comunità religiosa. Il procuratore incaricato di seguire il caso, Abdul Wasei, ha spiegato che sono scaduti i termini per formalizzare un'accusa nei confronti di Rahman, ''ragione principale della decisione del ministro della giustizia di rilasciarlo''. Ad allungare i tempi oltre i limiti era stato domenica il tribunale, rinviando la proposta di accusa al procuratore per la presunta incapacità di intendere dell'imputato.