28 Marzo 2024 :
Sergio D’Elia su L’Unità del 28 marzo 2024
Il consiglio comunale di Africo è stato sciolto per mafia nel dicembre del 2019. Era composto da 12 ragazzi incensurati e da un sindaco studente universitario. La loro colpa? L’identità anagrafica, il rapporto di parentela, l’appartenenza a una comunità di poche anime nata col segno di Caino marchiato sulla fronte fino all’ultima discendenza di nomi e cognomi identici. Nessun delitto di sangue, nessuna appartenenza alla mafia. La colpa dei ragazzi del consiglio di Africo era di essere nati ad Africo.
Il comune di Siderno è stato sciolto da un Prefetto che appena lasciata la Calabria ha pubblicato un libro dal titolo “Prefetto in terra di ‘ndrangheta”. Quasi fosse il capo di una spedizione coloniale in una terra barbara da liberare dal male e condurre alla civiltà. Quel Prefetto “sceso” in Calabria con le armi e i bagagli dell’antimafia ha travolto anche un Sindaco, Pietro Fuda, che in tutta la sua vita, da militante comunista, sindacalista, senatore della Repubblica, la mafia l’aveva davvero combattuta. Con le armi del diritto e della coscienza e non con la terribilità di leggi speciali e d’emergenza.
Nell’aprile del 2017 questura e prefettura avevano delegato all’Amministrazione guidata da Paolo Mascaro l’organizzazione della Festa Provinciale della Polizia di Stato sino ad allora mai tenutasi in città. A novembre, su proposta della prefettura, il Consiglio Comunale di Lamezia Terme è stato sciolto. La colpa? Aver assegnato alla Caritas per trent’anni, previo bando pubblico, un bene confiscato alla criminalità organizzata. L’anomalia? La durata temporale della concessione: trent’anni erano troppi.
Il consiglio comunale di Sinopoli è stato sciolto per decreto il 1° agosto del 2019. Il pericolo mafioso consisteva nelle relazioni di parentela, affinità, frequentazioni tra amministratori e soggetti “controindicati” abitanti in un borgo di duemila anime in cui tutti sono parenti di tutti e amici di tutti.
Il Comune di Mezzojuso è stato sciolto in diretta TV. Nel corso dell’ennesima puntata trasmessa dalla piazza del paese di una delle telenovelas più lunghe dei talk-show italiani, il conduttore Massimo Giletti chiese all’allora Ministro degli Interni Matteo Salvini l’invio degli ispettori per una verifica di infiltrazioni mafiose. Come un imperatore che nell’arena con il pollice decide la vita o la morte secondo il volere del popolo, il Ministro inviò i commissari prefettizi e qualche mese dopo il Comune fu sciolto.
Il consiglio comunale di Monte Sant’Angelo è stato sciolto nel luglio del 2015 con la formula di rito: “condizionamenti della criminalità organizzata tali da alterare il libero esercizio delle funzioni politiche e amministrative”. Il Sindaco Antonio Di Iasio, una persona per bene lontana anni luce da logiche e pratiche criminali, non credeva a suoi occhi e ha subito pensato “avranno sbagliato Comune”, visto che una memoria dell’Avvocatura di Stato scritta per Monte Sant’Angelo, che è in provincia di Foggia, veniva presentata a firma della prefettura di Reggio Calabria.
L’eventuale scioglimento del Comune di Bari sarebbe l’ennesimo capitolo di una storia tutta italiana segnata tragicamente dal braccio violento della legge: la Giustizia che, nella sua raffigurazione classica, è personificata da Dike, la dea che in una mano brandisce una spada e con l’altra regge una bilancia. L’arma è in alto e incute timore, incombe minacciosa ed è pronta a colpire. La bilancia è in basso, i piatti a volte sono in perfetto equilibrio di bene e male, a volte sono impari, il torto predomina sulla ragione e, letteralmente, “torce” il “diritto”. E quando la giustizia tortura il diritto, inevitabilmente, tortura persone, violenta non solo la loro libertà e dignità, ma anche la loro vita.
Gli ultimi trent’anni di storia italiana possono essere autenticamente testimoniati solo da chi li ha vissuti nei luoghi deputati, giudiziari ed extragiudiziari, del potere di Dike: le questure, i tribunali e le carceri, ma anche le commissioni parlamentari e le prefetture del nostro Paese, che un tempo era detto “culla del Diritto” e che oggi ne è divenuto, ormai, la tomba.
Se apriamo le pagine di cronaca di un giornale o le pagine di un libro di Storia, non troveremo mai raccontate le vicende di un Paese alla luce dello stato del diritto, l’unico lume che può farci vedere davvero quanto è accaduto e continua ad accadere in Italia. Meno che mai sono raccontate le storie delle vittime – gli imprenditori espropriati dei loro beni, gli interdetti dai pubblici affari, i sindaci, gli assessori e i consiglieri comunali derubati del voto popolare – che hanno vissuto sulla propria pelle la morte del diritto che comporta ineluttabilmente la morte di persone e di popoli.
Negli ultimi trent’anni, abbiamo assistito al degrado dalla Costituzione formale, scritta dai nostri padri costituenti, alla costituzione materiale, riscritta e interpretata dai nostri governanti. A ben vedere, il passaggio degradante è stato dall’ordine giudiziario al potere giudiziario, dall’ordine democratico al potere burocratico, dallo Stato di diritto allo Stato dei Prefetti.
Ordine e potere non sono compagni, sono nemici. “Ordine” è sinonimo di “diritto”, legge fondamentale, armonia, equilibrio, insieme di cose diverse. Non “legge e ordine”, la legge è – voce del verbo essere – ordine, il principio d’ordine da cui tutto origina, che tutto lega e a cui tutto tende.
La “guerra dei trent’anni” dichiarata dall’Italia alla mafia non è ancora finita. Se la mafia non è più quella di una volta, criminale e stragista, se i capi dei capi sono morti o sepolti nel cimitero dei vivi, permane la setta religiosa che quella guerra ha ispirato e alimentato alimentandosene. La professione di fede antimafiosa non ammette tregua, deroga giuridica, tentennamento politico, eresia garantistica. Lo stato di guerra non può essere dichiarato finito. L’armamentario emergenzialista di leggi, misure, procedure e apparati speciali non può essere smantellato.
Questo stato di cose non è più un sistema, è un regime. Sì, di questo si tratta e così va chiamato: regime. Perché quando uno stato di guerra e di emergenza dura da così tanto tempo, dal momento che la durata è la forma delle cose, questa forma di stato – illiberale, antidemocratico e violento – diventa, tecnicamente, un regime. Così abbiamo definito, giustamente, il regime fascista, che è durato un ventennio.
Il nostro regime democratico di emergenza antimafia dura ormai da oltre un trentennio. Eppure, pochi si scandalizzano, quasi nessuno ne chiede la fine.
In questo trentennio di guerra di religione contro la mafia sono stati traditi i principi sacri, le norme universali, le regole fondamentali dello Stato di diritto, del giusto processo, della presunzione di innocenza. Ai processi e ai castighi penali sono stati affiancati e spesso preferiti processi sommari e castighi immediati e più distruttivi. Quelli delle misure di prevenzione, dei sequestri e delle confische personali e patrimoniali, che hanno minato la libertà di impresa e il diritto al lavoro, hanno spogliato della proprietà le imprese e a volte dei beni minimi essenziali intere famiglie. Quelli delle informazioni interdittive antimafia, delle black e delle white list prefettizie, che hanno stravolto il sistema di trasparenza e libera concorrenza e imposto il controllo di fatto sull’economia degli organi di governo sul territorio. Quelli dello scioglimento dei Comuni per mafia, che ha umiliato e marchiato per sempre le istituzioni rappresentative di base.
Pochi si rendono conto che l’annullamento per decreto del potere centrale della vita democratica di base – la competizione politica, la partecipazione popolare, le elezioni – trasmette un messaggio devastante: cioè, che la democrazia è un sistema superato, le istituzioni più vicine ai cittadini sono forme anacronistiche della vita politica. Quasi nessuno considera che lo scioglimento di un Comune per mafia ha il significato anche di infliggere, non solo al suo sindaco, alla giunta e al consiglio comunale, ma all’intera comunità, la “pena di infamia”, una pena che veniva comminata solo nel Medioevo. Con quel marchio, i dignitari perdevano la loro dignitas, venivano degradati al rango degli “infami”, di cittadini senza cittadinanza.
Vige in Italia un sistema di potere arbitrario, pieno e incontrollato di cui sarebbe ora di liberarsi. La giustificazione al suo permanere è sempre la stessa: la mafia è il male assoluto e il fine di combatterlo giustifica ogni mezzo. Anche se i mezzi che lo Stato usa a fin di bene assomigliano molto ai mezzi usati dall’anti-Stato a fin di male. Anche se segnano la fine dello Stato di diritto e il trionfo dello Stato di sospetto, il ritorno allo Stato dei Prefetti d’epoca fascista.
In nome dell’emergenza e del pericolo mafioso, il Prefetto è diventato il dominus assoluto e incontrastato sulla vita politica, economica, sociale e amministrativa a livello locale. Di fatto decide sull’esercizio dei diritti civili e politici di una comunità, sulla libertà di fare impresa, sul diritto al lavoro, sulla vita di imprenditori e lavoratori. In definitiva, sulla vita del diritto e sul diritto alla vita nel nostro Paese.
“Abolire i Prefetti!”. Sarebbe ora di riprendere la battaglia che fu di Luigi Einaudi, e dopo di lui anche di Marco Pannella, volta a superare questo retaggio del centralismo napoleonico, questa protesi del potere centrale e di occupazione dello Stato sulla più periferica forma di vita democratica, politica e civile.