Sintesi del Rapporto 2015 di NtC

31 Luglio 2015 :

SINTESI DEI FATTI PIÙ IMPORTANTI DEL 2014
(e dei primi sei mesi del 2015) 
 
LA SITUAZIONE A OGGI
 
Sviluppi sulla pena di morte nel mondo
 
L’evoluzione positiva verso l’abolizione della pena di morte in atto nel mondo da oltre quindici anni, si è confermata nel 2014 e nei primi sei mesi del 2015.
I Paesi o i territori che hanno deciso di abolirla per legge o in pratica sono oggi 161. Di questi, i Paesi totalmente abolizionisti sono 103; gli abolizionisti per crimini ordinari sono 6; quelli che attuano una moratoria delle esecuzioni sono 6; i Paesi abolizionisti di fatto, che non eseguono sentenze capitali da oltre dieci anni o che si sono impegnati internazionalmente ad abolire la pena di morte, sono 46.
I Paesi mantenitori della pena di morte sono scesi a 37 (al 30 giugno 2015) rispetto ai 39 del 2013. I Paesi mantenitori sono progressivamente diminuiti nel corso degli ultimi anni: erano 40 nel 2012, 43 nel 2011, 42 nel 2010, 45 nel 2009, 48 nel 2008, 49 nel 2007, 51 nel 2006 e 54 nel 2005.
 
Esecuzioni nel 2014 e nei primi sei mesi del 2015
 
Nel 2014, i Paesi che hanno fatto ricorso alle esecuzioni capitali sono stati 22, come nel 2013 e 2012, mentre erano stati 20 nel 2011, 22 nel 2010, 19 nel 2009 e 26 nel 2008.
Nel 2014, le esecuzioni sono state almeno 3.576, a fronte delle almeno 3.511 del 2013, delle almeno 3.967 del 2012, delle almeno 5.004 del 2011, delle almeno 5.946 del 2010, delle almeno 5.741 del 2009 e delle almeno 5.735 del 2008. Il lieve aumento delle esecuzioni nel 2014 rispetto al 2013 si giustifica con l’incremento registrato in Iran e in Arabia Saudita.
Nei primi sei mesi del 2015, almeno 2.229 esecuzioni sono state effettuate in 17 Paesi e territori.
Nel 2014 e nei primi sei mesi del 2015, non si sono registrate esecuzioni in 5 Paesi – Botswana, India, Kuwait, Nigeria e Sudan del Sud – che le avevano effettuate nel 2013.
Viceversa, 7 Paesi, che non avevano effettuato esecuzioni nel 2013, le hanno riprese nel 2014: Bielorussia (almeno 3), Egitto (almeno 15), Emirati Arabi Uniti (1), Giordania (11), Guinea Equatoriale (9), Pakistan (7) e Singapore (2). Altri 2 Paesi, che non avevano effettuato esecuzioni nel 2014, le hanno riprese nei primi sei mesi del 2015: Bangladesh (2) e Indonesia (14).
Nel 2014 e nei primi sei mesi del 2015, è probabile che esecuzioni “legali” siano avvenute in Siria e Sudan del Sud, e in Vietnam e Yemen nei primi sei mesi del 2015, anche se non è possibile confermarlo.
 
Quadro regionale
 
Ancora una volta, l’Asia si conferma essere il continente dove si pratica la quasi totalità della pena di morte nel mondo. Se stimiamo che in Cina vi sono state almeno 2.400 esecuzioni (più o meno come nel 2013 e circa 600 in meno rispetto al 2012), il dato complessivo del 2014 nel continente asiatico corrisponde ad almeno 3.471 esecuzioni (il 97%), un po’ di più rispetto al 2013 quando erano state almeno 3.415. Nei primi sei mesi del 2015, nel continente asiatico sono state effettuate almeno 2.182 esecuzioni (il 98%) in 13 Paesi.
Le Americhe sarebbero un continente praticamente libero dalla pena di morte, se non fosse per gli Stati Uniti, l’unico Paese del continente che ha compiuto esecuzioni nel 2014 (33) e nei primi sei mesi del 2015 (17). In molti Paesi dei Caraibi, non sono state comminate nuove condanne a morte e i bracci della morte erano ancora vuoti alla fine dell’anno.
In Africa, nel 2014, la pena di morte è stata praticata in 4 Paesi (1 in meno rispetto al 2013) e sono state registrate almeno 67 esecuzioni: Sudan (almeno 23), Somalia (almeno 20), Egitto (almeno 15) e Guinea Equatoriale (9). Nei primi sei mesi del 2015, sono state effettuate almeno 30 esecuzioni in 3 Paesi del continente: Somalia (almeno 14), Egitto (almeno 12) e Sudan (almeno 4). Nel 2013 erano state almeno 57. Nel 2014 e nei primi sei mesi del 2015, non si sono registrate esecuzioni in Nigeria, Botswana, Gambia che le avevano effettuate nel 2013 e in Guinea Equatoriale che le aveva praticate nel 2014, mentre è probabile che esecuzioni “legali” siano avvenute in Sudan del Sud, anche se non è possibile confermarlo. Il 24 aprile 2015, il Gruppo di Lavoro sulla Pena di Morte della Commissione Africana per i Diritti Umani e dei Popoli (ACHPR) ha adottato la bozza di Protocollo alla Carta Africana dei Diritti Umani e dei Popoli per l’Abolizione della Pena di Morte in Africa. La bozza di Protocollo è ora al vaglio dell’Unione Africana.
In Europa, l’unica eccezione in un continente altrimenti totalmente libero dalla pena di morte è rappresentata dalla Bielorussia, un Paese che negli ultimi anni ha continuato a giustiziare suoi cittadini. Almeno 3 esecuzioni sono state effettuate nel 2014, mentre non risulta ne siano state effettuate nei primi sei mesi del 2015. Nel 2013, per la prima volta dopo molti anni, la Bielorussia non aveva praticato la pena di morte. Per quanto riguarda il resto dell’Europa, tutti gli altri Paesi l’hanno abolita in tutte le circostanze, mentre la Russia rispetta una moratoria legale delle esecuzioni.
 
La quinta Risoluzione ONU per la Moratoria universale delle esecuzioni capitali
 
Il 18 dicembre 2014, l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha chiesto di nuovo di porre fine all’uso della pena di morte con il passaggio di una nuova Risoluzione che invita gli Stati a stabilire una moratoria sulle esecuzioni, in vista dell’abolizione della pratica. E’ stato il quinto testo pro moratoria a essere adottato dal 2007. L’Assemblea Generale ha ribadito di limitare progressivamente l’uso della pena di morte e non imporla per reati commessi da persone minori di 18 anni, donne incinte e – ha aggiunto quest’anno – nei confronti di disabili mentali. Per la prima volta, gli Stati sono stati invitati ad assicurare il diritto all’assistenza consolare ai cittadini stranieri coinvolti in processi in cui rischiano la pena di morte.
La nuova Risoluzione è stata adottata con il numero record di 117 voti a favore (6 in più rispetto alla Risoluzione del 2012) e il più basso dei voti contrari (38, tre in meno rispetto al 2012), mentre gli astenuti (34, come nel 2012) e assenti al momento del voto (4, tre in meno rispetto al 2012) sono stati complessivamente 38.
Degni di nota sono stati la cosponsorizzazione, per la prima volta, della Sierra Leone e, in particolare, il voto del Niger per la prima volta a favore, frutto di una missione nel Paese di Nessuno tocchi Caino e del Partito Radicale che si è svolta dal 19 al 21 novembre. Insieme al Niger hanno per la prima volta votato a favore anche Eritrea, Figi, Guinea Equatoriale e Suriname, che si erano astenuti o erano assenti nel 2012. Come pure hanno votato a favore Kiribati e São Tomé e Principe, assenti al momento del voto nel 2012. Come ulteriore fatto positivo è da segnalare anche il passaggio dal voto contrario all’astensione di Bahrein, Myanmar, Tonga e Uganda.
Al fronte del ‘no’ è passata invece Papua Nuova Guinea, che in passato si era astenuta. Infine, Nauru, che nel 2012 aveva votato a favore, questa volta era assente al momento del voto, come pure sono risultati assenti 3 Paesi abolizionisti de jure o de facto: Mauritius, Lesotho e Swaziland.
 
Abolizioni legali, di fatto e moratorie
 
Nel 2014 e nei primi sei mesi del 2015, altri 9 Paesi hanno rafforzato ulteriormente il fronte a vario titolo abolizionista: Costa d’Avorio, Figi, Madagascar e Suriname hanno abolito totalmente la pena di morte; Gabon ed El Salvador hanno aderito al Secondo Protocollo Opzionale al Patto Internazionale sui Diritti Civili e Politici per l’abolizione della pena di morte; il Libano ha superato i dieci anni senza effettuare esecuzioni e quindi può essere considerato un abolizionista di fatto; la Guinea Equatoriale ha stabilito una moratoria legale della pena di morte.
Negli Stati Uniti, nel maggio 2015 il Nebraska è diventato il diciannovesimo Stato della federazione ad abolire la pena di morte e il settimo a farlo negli ultimi otto anni. In altri quattro Stati – Washington, Colorado, Pennsylvania e Oregon – i Governatori hanno sospeso le esecuzioni a causa degli evidenti difetti che connotano il sistema capitale.
 
Verso l’abolizione
 
Nel 2014 e nei primi sei mesi del 2015, ulteriori passi politici o legislativi verso l’abolizione o la moratoria di fatto della pena capitale si sono verificati in 41 Paesi.
Burkina Faso, Ciad, Comore, Ghana, Liberia, Niger e Sierra Leone hanno annunciato o proposto leggi per l’abolizione della pena di morte nella Costituzione o nei codici penali.
In sede di Revisione Periodica Universale del Consiglio dei diritti umani dell’ONU, Kazakistan, Kenia e Guyana hanno accettato raccomandazioni per l’abolizione della pena di morte. Come ulteriore fatto positivo è da segnalare il voto per la prima volta a favore della Risoluzione per una Moratoria sull’Uso della Pena di Morte all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite del 2014, tra gli altri, dell’Eritrea e il passaggio dal voto contrario all’astensione, tra gli altri, di Bahrein e Tonga.
Etiopia, Gambia, Guinea, Laos, Marocco, Qatar, Repubblica Democratica del Congo, Sri Lanka, Thailandia, Tunisia, Uganda, Zambia e Zimbabwe hanno confermato la loro politica di moratoria di fatto sulla pena di morte o sulle esecuzioni in atto da molti anni.
Nella Regione dei Caraibi, in 5 Paesi – Cuba, Dominica, Grenada, Guatemala e Saint Lucia – non sono state comminate nuove condanne a morte e i bracci della morte erano ancora vuoti alla fine del 2014. In altri 6 Paesi della Regione – Antigua e Barbuda, Bahamas, Belize, Giamaica, Saint Kitts e Nevis e Saint Vincent e Grenadine – non sono state comminate nuove condanne a morte e i condannati nei bracci della morte erano poche unità.
Inoltre, commutazioni collettive di pene capitali o sospensioni di esecuzioni a tempo indeterminato sono state decise in Camerun, Malawi, Myanmar e Nigeria.
 
Ripristino della pena di morte e ripresa delle esecuzioni
 
Sul fronte opposto, come abbiamo visto, 7 Paesi, che non avevano effettuato esecuzioni nel 2013, le hanno riprese nel 2014, in alcuni casi dopo molti anni di sospensione. Altri 2 Paesi, che non avevano effettuato esecuzioni nel 2014, le hanno riprese nei primi sei mesi del 2015.
Inoltre, nel 2014 e nei primi sei mesi del 2015, alcuni passi indietro politici o legislativi verso il ripristino della pena di morte e la ripresa delle esecuzioni sono stati fatti nei seguenti Paesi: Maldive, Papua Nuova Guinea e Kiribati.
 
LA PENA DI MORTE NEI PAESI ILLIBERALI
 
I primi paesi boia del 2014 (Cina, Iran e Arabia Saudita) e dei primi sei mesi del 2015 (Cina, Iran e Pakistan)
 
Dei 37 mantenitori della pena di morte, 31 sono Paesi dittatoriali, autoritari o parzialmente liberi. In 19 di questi Paesi, nel 2014, sono state compiute almeno 3.533 esecuzioni, il 98,8% del totale mondiale.
Un Paese solo, la Cina, ne ha effettuate almeno 2.400, circa il 67% del totale mondiale; l’Iran ne ha effettuate almeno 800; l’Arabia Saudita almeno 88; l’Iraq almeno 67; la Corea del Nord almeno 50; il Sudan almeno 23; lo Yemen almeno 23; la Somalia almeno 20; l’Egitto almeno 15; la Giordania 11; la Guinea Equatoriale 9; il Pakistan 7; l’Afghanistan 6; la Bielorussia almeno 3; la Malesia almeno 3; il Vietnam almeno 3; la Palestina (Striscia di Gaza) almeno 2; Singapore 2; gli Emirati Arabi Uniti 1.
Nei primi sei mesi del 2015, almeno 2.205 esecuzioni (il 99%) sono state effettuate in 14 Paesi illiberali: Cina (almeno 1.200); Iran (almeno 657); Pakistan (almeno 174); Arabia Saudita (almeno 102); Corea del Nord (almeno 16); Somalia (almeno 14); Indonesia (14); Egitto (almeno 12); Iraq (almeno 6); Sudan (almeno 4); Bangladesh (2); Giordania (2); Afghanistan (1); Singapore (1).
Molti di questi Paesi non forniscono statistiche ufficiali sulla pratica della pena di morte, per cui il numero delle esecuzioni potrebbe essere molto più alto. A ben vedere, in tutti questi Paesi, la soluzione definitiva del problema, più che alla lotta contro la pena di morte, attiene alla lotta per la democrazia, l’affermazione dello Stato di diritto, la promozione e il rispetto dei diritti politici e delle libertà civili.
Sul terribile podio dei primi tre Paesi che nel 2014 hanno compiuto più esecuzioni nel mondo figurano tre Paesi autoritari: Cina, Iran e Arabia Saudita. Mentre i primi Paesi-boia del 2015 (al 30 giugno) sono Cina, Iran e Pakistan.
 
Cina, primatista di esecuzioni, anche se in netta diminuzione
 
Anche se la pena di morte continua a essere considerata in Cina un segreto di Stato, negli ultimi anni si sono succedute notizie, anche di fonte ufficiale, in base alle quali condanne a morte ed esecuzioni sarebbero via via diminuite rispetto all’anno precedente.
Tale diminuzione è stata più significativa a partire dal 1° gennaio 2007, quando è entrata in vigore la riforma in base alla quale ogni condanna a morte emessa da tribunali di grado inferiore deve essere rivista dalla Corte Suprema.
Da allora, il numero delle esecuzioni a livello nazionale potrebbe essere sceso di oltre un terzo, con punte di quasi il 50 per cento in alcune regioni, ha riferito il Southern Weekly nel 2014 citando un esperto interno al sistema giudiziario.
La Fondazione statunitense Dui Hua ha stimato che la Cina ha giustiziato 2.400 persone nel 2013, lo stesso numero di esecuzioni previsto nel 2014. Questo dato rappresenta un calo del 20 per cento rispetto alle circa 3.000 esecuzioni del 2012 e un calo dell’80 per cento rispetto alle 12.000 del 2002.
 
Iran, 2.000 esecuzioni dall’inizio della presidenza di Rouhani
 
La Cina effettua il maggior numero di esecuzioni ogni anno, ma l’Iran mette a morte più persone pro capite di qualsiasi altro Paese.
Nel 2014 sono state effettuate almeno 800 esecuzioni, un 16,5% in più rispetto alle 687 del 2013: 290 sono state riportate da fonti ufficiali iraniane, mentre 510 sono state segnalate da fonti non ufficiali. Il numero effettivo delle esecuzioni è probabilmente molto superiore ai dati registrati da Nessuno tocchi Caino.
Nei primi sei mesi del 2015, sono già state giustiziate almeno 657 persone (216 esecuzioni ufficiali e 441 confermate da fonti indipendenti). Se le autorità iraniane continueranno con questo ritmo è probabile che si raggiunga il numero record di 1.000 esecuzioni per la fine dell’anno.
Nei due anni di presidenza di Hassan Rouhani (dal 1° luglio 2013 al 30 giugno 2015), in Iran sono stati giustiziati quasi 2.000 prigionieri.
 
Arabia Saudita, ondata di esecuzioni dalla fine del regno di Re Abdullah
 
Il numero di esecuzioni ha raggiunto il suo livello più alto degli ultimi cinque anni. Nel 2014, l’Arabia Saudita ha giustiziato almeno 88 condannati a morte, mentre nel 2015 (al 30 giugno), con almeno 102 esecuzioni, è già stato superato il totale dell’anno precedente. Nel 2013, il Regno saudita aveva giustiziato almeno 78 condannati a morte.
L’ondata di esecuzioni è iniziata verso la fine del regno di Re Abdullah, morto il 23 gennaio 2015, accelerando sotto il suo successore Re Salman, che ha adottato una politica estera più aggressiva e nel mese di aprile ha promosso il suo potente Ministro dell’Interno Mohammed bin Nayef come principe ereditario ed erede al trono.
 
Pakistan, record di esecuzioni dopo la revoca della moratoria
 
Il 17 dicembre 2014, il Pakistan ha revocato una moratoria che durava da sei anni sulla pena di morte per i casi di terrorismo, a seguito del massacro perpetrato il 16 dicembre dai talebani in una scuola a conduzione militare a Peshawar, in cui sono state uccise 150 persone, tra cui 134 bambini. Il 3 marzo 2015, il Governo Federale ha formalmente revocato la moratoria sulla pena di morte per tutti i prigionieri condannati.
Dal 17 dicembre 2014, quando si è conclusa la moratoria di fatto sulla pena capitale e fino al 30 giugno 2015, almeno 181 persone, tra cui 25 condannati per terrorismo, sono state impiccate in varie prigioni del Paese.
 
DEMOCRAZIA E PENA DI MORTE
 
Dei 37 Paesi mantenitori della pena capitale, sono solo 6 quelli che possiamo definire di democrazia liberale, con ciò considerando non solo il sistema politico del Paese, ma anche il sistema dei diritti umani, il rispetto dei diritti civili e politici, delle libertà economiche e delle regole dello Stato di diritto.
Le democrazie liberali che nel 2014 hanno praticato la pena di morte sono state solo 3 e hanno effettuato in tutto 43 esecuzioni, l’1,2% del totale mondiale: Stati Uniti (35), Taiwan (5) e Giappone (3). Nel 2013 erano state 5 (Stati Uniti, Giappone, Taiwan, Botswana e India) e avevano effettuato in tutto 55 esecuzioni.
Nel 2015, al 30 giugno, la pena di morte è stata praticata in solo 3 Paesi democratici: Giappone, con 1 esecuzione, gli Stati Uniti, con 17 e Taiwan con 6.
In molti di questi Paesi considerati “democratici”, il sistema della pena capitale è per molti aspetti anche coperto da un velo di segretezza.
 
LA PENA DI MORTE NEI PAESI MUSULMANI
 
Dei 47 Paesi e territori a maggioranza musulmana nel mondo, 25 possono essere considerati a vario titolo abolizionisti, mentre i mantenitori della pena di morte sono 22, dei quali 18 hanno nei loro ordinamenti giuridici richiami espliciti alla Sharia.
Comunque, il problema non è il Corano, perché non tutti i Paesi islamici che a esso si ispirano praticano la pena di morte o fanno di quel testo il proprio codice penale, civile o, addirittura, la propria legge fondamentale. Il problema è la traduzione letterale di un testo millenario in norme penali, punizioni e prescrizioni valide per i nostri giorni, operata da regimi fondamentalisti, dittatoriali o autoritari al fine di impedire qualsiasi cambiamento democratico.
Nel 2014, almeno 1.066 esecuzioni, contro le almeno 1.027 del 2013, sono state effettuate in 13 Paesi a maggioranza musulmana (come nel 2013), molte delle quali ordinate da tribunali islamici in base a una stretta applicazione della Sharia.
Nel 2015, al 30 giugno, almeno 988 altre esecuzioni sono state effettuate in 11 Paesi a maggioranza musulmana.
Nel 2014 e nei primi sei mesi del 2015, l’impiccagione, la fucilazione e la decapitazione sono stati i metodi con cui è stata praticata “legalmente” la pena di morte nei Paesi a maggioranza musulmana, mentre non risulta siano state eseguite condanne a morte “legali” tramite lapidazione che, tra le punizioni islamiche, è la più terribile.
 
L’impiccagione e non solo
 
Tra i metodi di esecuzione di sentenze capitali nei Paesi a maggioranza musulmana, il più diffuso è l’impiccagione, la quale è preferita per gli uomini ma non risparmia le donne.
Nel 2014, 933 impiccagioni sono state effettuate in 9 Paesi a maggioranza musulmana: Afghanistan (6), Egitto (almeno 15), Giordania (11), Iran (almeno 800), Iraq (almeno 67), Malesia (almeno 3), Pakistan (7), Palestina (almeno 1) e Sudan (almeno 23).
Nel 2015, al 30 giugno, almeno 858 altre impiccagioni sono state effettuate in 8 Paesi a maggioranza musulmana: Afghanistan (1), Bangladesh (2), Egitto (almeno 12), Giordania (2), Iran (almeno 657, tra cui 216 annunciate dal Governo); Iraq (almeno 6); Pakistan (almeno 174), Sudan (almeno 4).
Nel 2014 e nei primi sei mesi del 2015, non si sono registrate impiccagioni in Kuwait che le aveva effettuate nel 2013.
Impiccagioni “extragiudiziarie” sono state effettuate in Afghanistan nelle zone controllate dai Talebani e in Siria dal gruppo jihadista denominato Stato Islamico (IS).
Nel 2014, altre 5 impiccagioni sono state effettuate in 2 Paesi non musulmani: Giappone (3) e Singapore (2). Nel 2015, al 30 giugno, sono state compiute altre 2 impiccagioni, una in Giappone e l’altra a Singapore.
 
L’impiccagione è spesso eseguita in pubblico e a volte combinata a pene supplementari come la fustigazione e l’amputazione degli arti prima dell’esecuzione. In Iran avviene di solito tramite delle gru o piattaforme più basse per assicurare una morte più lenta e dolorosa. Come cappio è usata una robusta corda oppure un filo d’acciaio che viene posto intorno al collo in modo da stringere la laringe provocando un forte dolore e prolungando il momento della morte. Oltre a quelle impiccate in carcere, nel 2014 sono state impiccate in pubblico almeno 64 persone e la pratica è proseguita nel 2015, con almeno 36 esecuzioni al 30 giugno.
 
La fucilazione
 
Non propriamente una punizione islamica, la fucilazione è pure stata usata nei Paesi a maggioranza musulmana nel 2014 e nei primi mesi del 2015.
Nel 2014, almeno 45 esecuzioni tramite fucilazione sono state effettuate in 4 Paesi: Emirati Arabi Uniti (1), Palestina (almeno 1), Somalia (almeno 20) e Yemen (almeno 23).
Nel 2015, al 30 giugno, almeno 28 fucilazioni sono state effettuate in 2 Paesi a maggioranza musulmana: Indonesia (14); Somalia (almeno 14).
E’ probabile che esecuzioni tramite fucilazione siano avvenute anche Siria nel 2014 e nei primi sei mesi del 2015, come pure in Yemen nei primi sei mesi del 2015, anche se non è possibile confermarlo a causa dei conflitti armati interni che si sono intensificati nel corso degli ultimi due anni e della mancanza di informazioni ufficiali fornite dalle autorità.
Come “esecuzioni extragiudiziarie” andrebbero invece classificate le fucilazioni effettuate in Somalia dagli estremisti islamici di Al-Shabaab, in Yemen da islamisti legati ad Al-Qaeda, in Siria dai gruppi jihadisti Stato Islamico e Fronte Al-Nusra e in Libia dal gruppo estremista islamico Consiglio della Shura della Gioventù Islamica.
 
Nel 2014, almeno altre 67 fucilazioni “legali” sono state effettuate in 5 Paesi non musulmani: Bielorussia (almeno 3); Cina (numero imprecisato); Corea del Nord (almeno 50); Guinea Equatoriale (9); Taiwan (5). Nei primi sei mesi del 2015, ci sono state almeno altre 22 fucilazioni in 3 Paesi non musulmani: Cina (numero imprecisato); Corea del Nord (almeno 16); Taiwan (6).
 
La decapitazione
 
La decapitazione come metodo “legale” per eseguire sentenze capitali in base alla Sharia è un’esclusiva dell’Arabia Saudita, che ha decapitato almeno 88 persone nel 2014 e almeno 102 persone nel 2015 (al 30 giugno).
Come “esecuzioni extragiudiziarie” andrebbero invece classificate le decapitazioni effettuate nel 2014 e nel 2015 in Somalia dagli estremisti islamici di Al-Shabaab, in Egitto dal gruppo jihadista del Sinai Ansar Beit al-Maqdis e dallo Stato Islamico (IS) in Siria e Iraq.
 
La lapidazione
 
Tra le punizioni islamiche, la lapidazione è la più terribile. Il condannato è avvolto da capo a piedi in un sudario bianco e interrato. La donna è interrata fino alle ascelle, mentre l’uomo fino alla vita. Un carico di pietre è portato sul luogo e funzionari incaricati – in alcuni casi anche semplici cittadini autorizzati dalle autorità – eseguono la lapidazione. La morte deve essere lenta e dolorosa, per cui le pietre non devono essere così grandi da provocarla con uno o due colpi. Se il condannato riesce in qualche modo a sopravvivere alla lapidazione, sarà imprigionato per almeno 15 anni ma non verrà giustiziato.
La lapidazione non è una pratica del passato. Ci sono 16 Paesi in cui è prevista dalla legge o praticata di fatto.
La lapidazione è una punizione legale per l’adulterio in Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Iran, Mauritania, Nigeria (in un terzo dei 36 Stati del Paese), Pakistan, Qatar, Somalia, Sudan e Yemen. In alcuni Paesi, come la Mauritania e il Qatar, la lapidazione non è mai stata praticata, anche se rimane legale.
In quattro dei restanti sei Paesi – Afghanistan, Iraq, Mali e Siria – la lapidazione non è legale, ma capi tribali, militanti islamici e altri la praticano in via extragiudiziaria. Nella regione di Aceh in Indonesia e in Malesia, la lapidazione è sanzionata a livello regionale, ma vietata a livello nazionale.
Nel 2014 e nei primi sei mesi del 2015, non risultano condanne a morte “legali” eseguite tramite lapidazione.
Nell’aprile 2013, l’Iran ha reinserito la lapidazione in una precedente versione del nuovo codice penale che l’aveva omessa come pena esplicita per l’adulterio. Comunque, non risulta che da allora siano state praticate lapidazioni.
Nel 2014, condanne alla lapidazione sono state emesse in Nigeria e negli Emirati Arabi Uniti, ma non sono state eseguite.
Il 1° maggio 2014, è entrato in vigore il nuovo Codice Penale della Sharia di Brunei Darussalam, che prevede punizioni islamiche severe, tra cui la lapidazione per adulterio.
Lapidazioni extra-giudiziarie sono state invece effettuate in Pakistan a opera di tribunali tribali, in Somalia dagli estremisti islamici Al-Shabaab e in Siria e Iraq dal gruppo fondamentalista noto come Stato Islamico (IS).
 
Il “prezzo del sangue”
 
Secondo la legge islamica, i parenti della vittima di un delitto hanno tre possibilità: esigere l’esecuzione della sentenza, risparmiare la vita dell’assassino con la benedizione di Dio oppure concedergli la grazia in cambio di un compenso in denaro, detto Diya (prezzo del sangue).
Nel 2014 e nei primi sei mesi del 2015, casi relativi al “prezzo del sangue” si sono risolti col perdono o con l’esecuzione in Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Iran, Kuwait e Pakistan.
In Iran, il “prezzo del sangue” per una vittima donna è la metà di quello di un uomo. Inoltre, se uccide una donna, un uomo non potrà essere giustiziato, anche se condannato a morte, senza che la famiglia della donna abbia prima pagato a quella dell’assassino la metà del suo “prezzo del sangue”.
Nel settembre 2011, l’Arabia Saudita ha deciso di triplicare la diya, mantenendo però il “prezzo del sangue” per l’assassinio di una donna la metà di quello per l’uccisione di un maschio.
 
Pena di morte per blasfemia e apostasia
 
In alcuni Paesi a maggioranza musulmana convertire dall’Islam ad altra religione o rinunciare all’Islam è considerato apostasia ed è tecnicamente un reato capitale. Inoltre, la pena capitale è stata estesa in base alla Sharia anche ai casi di blasfemia, cioè può essere imposta a chi offende il Profeta Maometto, altri profeti o le sacre scritture.
Secondo il rapporto Freedom of Thought 2014, pubblicato dalla International Humanist and Ethical Union (IHEU), il “reato” di apostasia risulta essere punito con la morte in 12 dei più integralisti Paesi musulmani: Afghanistan, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Iran, Iraq, Maldive, Malesia (pur contraddicendo la legge federale, i Governi degli Stati di Kelantan e Terengganu hanno approvato, rispettivamente, nel 1993 e nel 2002 leggi che rendono l’apostasia un reato capitale), Mauritania, Nigeria (solo in dodici Stati settentrionali a maggioranza musulmana), Qatar, Sudan e Yemen.
Dei 47 Paesi a maggioranza musulmana, al massimo 6 consentono la pena capitale per blasfemia: Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Iran, Iraq, Pakistan e forse Afghanistan (dove, però, la nuova Costituzione incorpora norme sui diritti umani che contraddicono norme penali che considerano la blasfemia un reato capitale).
In altri cinque Stati, militanti islamici che agiscono come autorità religiose di alcune aree applicano la pena di morte in base alla Sharia per “reati” legati alla religione: Al-Shabaab in Somalia; Boko Haram e altri islamisti in Nigeria; i Talebani in Afghanistan; il gruppo jihadista sunnita Stato Islamico (IS) in Siria e Iraq.
Nel 2014 e nei primi sei mesi del 2015, condanne a morte per apostasia, blasfemia o stregoneria sono state comminate o eseguite in Arabia Saudita, Iran, Mauritania, Nigeria, Pakistan e Sudan.
Il 5 agosto 2014, il cittadino saudita Muhammad bin Bakr Al-Alawi è stato decapitato a Gurayyat, in Arabia Saudita, per aver praticato la magia e la stregoneria. Il 24 settembre 2014, in Iran, un prigioniero di coscienza, Mohsen Amir Aslani, è stato giustiziato nel carcere di Rajaee Shahr a Karaj, dopo essere stato accusato di “corruzione sulla terra” ed eresia.
Esecuzioni extragiudiziarie per blasfemia o apostasia sono state effettuate in Somalia dal gruppo islamista Al-Shabaab e in Iraq dal gruppo fondamentalista Stato Islamico (IS).
 
PENA DI MORTE NEI CONFRONTI DI MINORI
 
Applicare la pena di morte a persone che avevano meno di 18 anni al momento del reato è in aperto contrasto con quanto stabilito dal Patto Internazionale sui Diritti Civili e Politici e dalla Convenzione delle Nazioni Unite sui Diritti del Fanciullo.
Nel 2014, le esecuzioni di autori di reato commesso da minorenni sono state almeno 17 e sono avvenute tutte in un solo Paese, l’Iran.
Nel 2013, almeno 13 persone che avevano meno di 18 anni al momento del fatto erano state giustiziate in 3 Paesi: almeno 9 in Iran; almeno 3 in Arabia Saudita; 1 in Yemen.
Nei primi sei mesi del 2015, al 30 giugno, sono stati giustiziati almeno altri 4 minorenni al momento del reato: 2 in Iran e 2 in Pakistan.
Inoltre, nel 2014 e nei primi sei mesi del 2015, persone che erano minorenni al momento dei loro presunti crimini sono state condannate a morte in Egitto, Maldive, Somalia e Sri Lanka o erano ancora nel braccio della morte in Arabia Saudita, Nigeria e Yemen.
 
LA “GUERRA ALLA DROGA”
 
Il Patto Internazionale sui Diritti Civili e Politici ammette un’eccezione al diritto alla vita per quei Paesi che ancora non hanno abolito la pena di morte, ma solo riguardo ai “reati più gravi”. Gli organismi delle Nazioni Unite sui diritti umani hanno dichiarato i reati di droga non ascrivibili alla categoria dei “reati più gravi”.
Nel 2011, con una “linea guida” interna, l’Ufficio delle Nazioni Unite contro la Droga e il Crimine (UNODC) ha chiesto al suo staff di cessare gli aiuti a un Paese se tale sostegno potrebbe facilitare le esecuzioni. Nonostante questa linea guida, la leadership dell’UNODC non ha smesso di destinare fondi a Paesi mantenitori della pena di morte come Iran, Vietnam e Pakistan, che li utilizzano per catturare, condannare a morte e spesso anche giustiziare presunti trafficanti di droga.
Un certo numero di Stati europei, tra cui Regno Unito, Danimarca e Irlanda, hanno già ritirato i loro finanziamenti a programmi dell’UNODC in Iran, con il Governo danese che ha pubblicamente riconosciuto che le donazioni stavano portando a esecuzioni capitali. Ma la Francia e la Germania hanno rifiutato di assumere impegni analoghi e non hanno escluso di contribuire a un nuovo fondo di finanziamento segreto dell’UNODC alla Polizia Anti Droga (PAD) iraniana. Secondo l’organizzazione umanitaria Reprieve, la Francia ha fornito più di 1 milione di euro alla PAD negli ultimi anni, mentre la Germania ha contribuito a un progetto di 5 milioni di euro dell’UNODC per la formazione e le attrezzature della PAD iraniana. Il Regno Unito ha deciso di fermare il suo finanziamento al Fondo anti-droga destinato all’Iran, ma non a quello per il Pakistan, al quale ha contribuito con più di 12 milioni di sterline.
Un’altra questione riguarda la presenza, in molti Stati, di leggi che prescrivono la condanna a morte obbligatoria per alcuni reati di droga. L’obbligatorietà della pena capitale, che non tiene conto del merito specifico di ogni singolo caso, è stata fortemente criticata dalle autorità internazionali a tutela dei diritti umani. Secondo Harm Reduction International (HRI), i Paesi o territori che nel mondo mantengono leggi che prevedono la pena di morte per reati legati alla droga sono 33, dei quali 12 la prevedono obbligatoriamente in alcuni casi particolari: Brunei Darussalam, Egitto, Emirati Arabi Uniti, Iran, Kuwait, Laos, Malesia, Oman, Siria, Sudan, Sudan del Sud e Yemen. Ma nella maggior parte di questi Paesi le esecuzioni sono estremamente rare. E’ noto che solo in sette Paesi – Arabia Saudita, Cina, Indonesia, Iran, Malesia, Singapore e Vietnam – esecuzioni per reati di droga sono effettuate di routine.
L’ideologia proibizionista in materia di droga ha continuato a dare un contributo consistente alla pratica della pena di morte anche nel 2014 e nei primi sei mesi del 2015.
Nel 2014, nel nome della guerra alla droga, sono state effettuate almeno 414 esecuzioni in 4 Paesi: Arabia Saudita (almeno 41); Cina (numero sconosciuto); Iran (almeno 371); Singapore (2).
Nel 2015, al 30 giugno, almeno 518 persone sono state giustiziate per reati connessi alla droga in 4 Paesi: Arabia Saudita (almeno 46); Cina (numero sconosciuto); Indonesia (14); Iran (almeno 458).
Nel 2014 e nei primi mesi del 2015, condanne a morte per droga sono state pronunciate, anche se non eseguite, in altri 9 Stati: Egitto, Emirati Arabi Uniti, Kuwait, Malesia, Pakistan, Qatar, Sri Lanka, Thailandia e Vietnam.
 
LA “GUERRA AL TERRORISMO”
 
In nome della lotta al terrorismo, Paesi autoritari e illiberali hanno continuato nella violazione dei diritti umani al proprio interno e, in alcuni casi, hanno giustiziato e perseguitato persone in realtà coinvolte solo nella opposizione pacifica o in attività sgradite al regime.
Nel 2014, almeno 107 esecuzioni per fatti di “terrorismo” o per crimini violenti di natura politica sono state effettuate in 5 Paesi: Cina (almeno 21), Iraq (almeno 64), Pakistan (7), Somalia (almeno 13) e Sudan (almeno 2).
Nel 2015, al 30 giugno, almeno 45 persone sono state giustiziate per atti di “terrorismo” in 8 Paesi: Bangladesh (2), Cina (almeno 3), Egitto (7), Giordania (2), Iran (almeno 1), Iraq (almeno 6), Pakistan (18) e Somalia (almeno 6).
È probabile che esecuzioni “legali” per terrorismo siano avvenute anche in Siria nel 2014 e nei primi mesi del 2015, anche se non è possibile confermarlo.
Nel 2014 e nei primi mesi del 2015, centinaia di condanne a morte per “atti di terrorismo” sono state pronunciate anche se non eseguite in altri 6 Paesi: Algeria, Arabia Saudita, Bahrein, Libano, Mauritania e Nigeria.
Negli Stati Uniti, la pratica legale della pena di morte è diminuita di anno in anno, ma l’uso degli aerei senza pilota, i droni, nella guerra extragiudiziaria al terrorismo, si sarebbe intensificato nel corso della presidenza di Barack Obama.
 
PENA DI MORTE PER REATI NON VIOLENTI, POLITICI E D’OPINIONE
 
Secondo il Patto Internazionale sui Diritti Civili e Politici, “nei Paesi in cui la pena di morte non è stata abolita, una sentenza capitale può essere comminata soltanto per i delitti più gravi”. Il limite dei “reati più gravi” per l’applicazione legittima della pena di morte è sostenuto anche dagli organismi politici delle Nazioni Unite, i quali chiariscono che per “reati più gravi” s’intendono solo quelli “con conseguenze letali o estremamente gravi”.
Ciò nonostante, nel 2014, condanne a morte o esecuzioni per reati non violenti o per motivi essenzialmente politici si sono verificate in Cina (numero imprecisato), Iran (almeno 32 esecuzioni) e Corea del Nord (almeno 50 esecuzioni).
Nel 2015, al 30 giugno, esecuzioni per reati non violenti o per motivi essenzialmente politici si sono verificate in Cina (numero imprecisato), Iran (almeno 14 esecuzioni) e Corea del Nord (almeno 16 esecuzioni).
 
LA PENA DI MORTE “TOP SECRET”
 
Il 18 dicembre 2014, l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha approvato una nuova Risoluzione che invita gli Stati membri a stabilire una moratoria sulle esecuzioni, in vista dell’abolizione della pratica. La Risoluzione di quest’anno è stata rafforzata nella parte in cui chiede agli Stati di “rendere disponibili le informazioni rilevanti circa l’uso della pena di morte”, tra cui il numero delle condanne a morte e delle esecuzioni, il numero dei detenuti nel braccio della morte e delle sentenze capitali rovesciate o commutate in appello o per le quali è intervenuta un’amnistia o concessa la grazia.
 
Molti Paesi, per lo più autoritari, non forniscono statistiche ufficiali sull’applicazione della pena di morte, per cui il numero delle esecuzioni potrebbe essere molto più alto.
In alcuni casi, come la Cina e il Vietnam, la questione è considerata un segreto di Stato e le notizie di esecuzioni riportate dai giornali locali o da fonti indipendenti rappresentano una minima parte del fenomeno.
Anche in Bielorussia vige il segreto di Stato, retaggio della tradizione sovietica, e le notizie sulle esecuzioni filtrano dalle prigioni tramite parenti dei giustiziati o organizzazioni internazionali molto tempo dopo la data dell’esecuzione.
In Iran, dove pure non esiste segreto di Stato sulla pena di morte, le sole informazioni disponibili sulle esecuzioni sono tratte da notizie selezionate dal regime e uscite su media statali o rese pubbliche da fonti ufficiose o indipendenti.
Ci sono poi situazioni in cui le esecuzioni sono tenute assolutamente nascoste e le notizie raramente filtrano dai giornali locali. È il caso di Corea del Nord, Egitto, Malesia e Siria.
Vi sono, poi, Paesi come Arabia Saudita, Indonesia, Iraq e Sudan del Sud, dove le esecuzioni sono di dominio pubblico solo una volta che sono state effettuate, mentre familiari, avvocati e gli stessi condannati a morte sono tenuti all’oscuro di tutto.
A ben vedere, in quasi tutti questi Paesi, la soluzione definitiva del problema, più che alla lotta contro la pena di morte, attiene alla lotta per la democrazia, l’affermazione dello Stato di diritto, la promozione e il rispetto dei diritti politici e delle libertà civili.
Vi sono, però, anche Paesi considerati “democratici”, come Giappone, India e Taiwan, nei quali il sistema della pena capitale è per molti aspetti coperto da un velo di segretezza.
Negli stessi Stati Uniti, la segretezza sul processo di iniezione letale è divenuta una questione sempre più all’ordine del giorno dopo una serie di esecuzioni “malriuscite” effettuate nel 2014. Dei 31 Stati che utilizzano ancora l’iniezione letale, almeno 14 prevedono – de jure o de facto – il segreto di Stato che impedisce al pubblico o ai detenuti di conoscere la fonte e la qualità dei farmaci di esecuzione. Se gli Stati sono sempre più riluttanti a rivelare informazioni sui farmaci utilizzati nelle camere della morte, alcuni mass media si sono aggiunti agli avvocati difensori nell’intentare cause per contestare queste politiche di “segretezza”.
 
LA “CIVILTÀ” DELL’INIEZIONE LETALE
 
Sempre più la pena di morte è vista nel mondo come una forma di tortura, dal momento che infligge una grave sofferenza mentale e fisica ai condannati a morte.
I Paesi che hanno deciso di passare dalla sedia elettrica, l’impiccagione o la fucilazione alla iniezione letale come metodo di esecuzione, hanno presentato questa “riforma” come una conquista di civiltà e un modo più umano e indolore per giustiziare i condannati a morte.
La realtà è diversa, come hanno dimostrato molti casi di detenuti giustiziati tramite iniezione letale negli Stati Uniti.
Il 29 aprile 2014, in Oklahoma, Clayton Lockett è andato violentemente in convulsione, ha cercato di sollevare la testa dopo che un medico lo aveva dichiarato privo di sensi, poi è morto dopo aver trascorso 43 minuti di agonia sul lettino dell’iniezione. Il 23 luglio 2014, Joseph Wood è stato dichiarato morto un’ora e 57 minuti dopo l’inizio dell’esecuzione effettuata nella prigione di Florence in Arizona. Ha annaspato ripetutamente durante la sua interminabile esecuzione. Ha pronunciato le sue ultime parole ed è entrato in uno stato d’incoscienza. Ha poi sbuffato rumorosamente, come se russasse, e ha continuato a emettere quel suono per un’ora e 40 minuti. Un giornalista che ha assistito all’esecuzione, Troy Hayden, ha detto che era “molto inquietante da guardare ... come un pesce fuor d’acqua che tenta di ingoiare aria”.
Dopo una serie di esecuzioni difettose, la Corte Suprema degli Stati Uniti ha accettato di discutere il ricorso di un gruppo di condannati a morte dell’Oklahoma contro l’uso del Midazolam. Il 29 giugno 2015, la Corte Suprema ha confermato la costituzionalità del protocollo dell’iniezione letale dell’Oklahoma e, in particolare, dell’utilizzo del Midazolam, il farmaco che è stato al centro di alcune recenti esecuzioni difettose negli Stati Uniti.
 
Oggi, ci sono quattro Paesi che usano l’iniezione letale come metodo di esecuzione: Stati Uniti, Cina, Thailandia e Vietnam.
Altri due Paesi – Taiwan e Maldive – prevedono attualmente l’esecuzione per iniezione letale, ma non hanno ancora giustiziato nessuno con quel metodo.
Le esecuzioni per iniezione letale sono state effettuate anche in Guatemala e Filippine, ma sono ormai fuori uso da quando questi due Paesi hanno, rispettivamente, istituito una moratoria ufficiale sulle esecuzioni e abolito la pena di morte.
Nel 2014, l’iniezione letale per eseguire la pena di morte è stata utilizzata in 3 Paesi: Stati Uniti (35 esecuzioni); Cina (numero imprecisato) e Vietnam (almeno 3 esecuzioni).
Nei primi sei mesi del 2015, l’iniezione letale è stata praticata in almeno 2 Paesi: Stati Uniti (17 esecuzioni, al 30 giugno) e Cina (numero imprecisato).