21 Settembre 2017 :
Uno studio sostiene che tanto sono più gravi i reati, tanto sono più gravi le irregolarità nei processi. "The Worst of the Worst: Heinous Crimes and Erroneous Evidence" prende il titolo dalla definizione “worst of the worst” (peggiori tra i peggiori) che si usa per dire che la pena di morte deve essere riservata solo, appunto, ai peggiori tra i peggiori. “I peggiori tra i peggiori: crimini efferati e prove sbagliate” è uno studio su 1500 casi analizzati da Scott Phillips e Jamie Richardson, professori di sociologia e criminologia della University of Denver (Colorado), ed è stato pubblicato sul n. 45 di Hofstra Law Review. Prende in esame 1500 casi di persone prima condannate, poi prosciolte. “più il crimine è grave, più la pubblica accusa sembra affidarsi a prove inaccurate e inaffidabili. I reati più efferati, quelli per i quali è più probabile che la pubblica accusa chieda la pena di morte, sono anche quelli in cui la pubblica accusa ha la tendenza a partecipare nella produzione di prove sbagliate, dalle false confessioni, all’uso di delatori inaffidabili, pressioni sulla polizia ed esami di laboratorio inaccurati”. Approfondendo il tema delle false confessioni, i professori sostengono che “più cresce la gravità del crimine, o l’allarme sociale collegato al crimine, più cresce l’aggressività dalla polizia nel condurre gli interrogatori. E di fatto interrogatori più aggressivi producono sia più vere confessioni, che più false confessioni. Secondo lo studio, il comportamento della polizia è condizionato dalle pressioni politiche. La parte dello studio che riguarda le false confessioni è diviso in due parti, una riguarda persone condannate a pene detentive per reati molto gravi, compreso l’omicidio, e persone condannate a morte per omicidio di primo grado. Di tutti i casi viene creata una specie di classifica di “gravità”.
Utilizzando i dati del the National Registry of Exonerations (un progetto della University of California, University of Michigan e Michigan State University), 234 delle 1535 prosciolte dal 1989 al 2014 aveva fatto confessioni ritrattate in un secondo tempo. Di queste 234 persone, 22 hanno avuto una condanna a morte. Lo studio ha calcolato che il 21% delle persone erroneamente condannate per omicidio avevano fornito confessioni rivelatesi in seguito false. La percentuale scende al 7% quando si esaminano (nello stesso Registry) reati meno gravi. Nei casi di “esonerati” in cui test del Dna hanno dato forza alla proclamazione di innocenza, il 41% delle persone condannate per omicidio avevano in un primo tempo confessato, un tasso di confessione 7 volte più alto rispetto a persone condannate (e poi prosciolte) per reati non di omicidio. Tra i prosciolti dal braccio della morte, il 39% aveva confessato, un tasso 5 volte maggiore rispetto al 7% delle persone condannate sempre per omicidi, ma considerati “meno gravi”. Secondo i professori Phillips e Richardson il livello di gravità di un omicidio permettere di prevedere il livello di affidabilità che la pubblica accusa (spesso indicata come “lo Stato”) darà a informatori, delatori, prove di laboratorio ambigue e comportamenti irregolari della polizia (definita “condotta impropria del governo”). Tra i casi di proscioglimento dal braccio della morte, il governo ha tenuto comportamenti scorretti nell’86% dei casi gravi, rispetto al 66% in casi di omicidio considerati meno gravi. Lo stato ha utilizzato testimonianze di informatori all’interno delle carceri nel 42% dei casi gravi, contro il 15% nei casi meno gravi. Uso improprio di analisi forensi ricorrono nel 39% dei casi molto gravi, contro il 23% dei casi meno gravi.