10 Agosto 2021 :
Come ennesima conseguenza del fatto che gli statunitensi cercano di processare degli estremisti islamici inventando una procedura penale e un diritto internazionale “ad personam”, a 20 anni dagli attentati dell’11 Settembre non solo i processi non sono ancora iniziati, ma i giudici incaricati continuano a dimettersi. L’ultimo è il generale Mark S. Martins, il procuratore capo nei processi della Military Commission di Guantanamo. La Commissione Militare è una specie di Corte Marziale, ma mentre una corte marziale processa i militari delle proprie Forze Armate, la Military Commission, una invenzione del 2006 dell’Amministrazione Bush, processa gli estremisti islamici considerati “prigionieri di guerra”, una specie di Corte di Norimberga o Tribunale Penale Internazionale, ma unilaterale. Il generale Martins ha ricoperto l’incarico durante le amministrazioni Obama e Trump. Ora ha annunciato che il 30 settembre andrà in pensione anticipata. Secondo il New York Times, Martins vorrebbe utilizzare le confessioni ottenute sotto tortura, e fin qui aveva avuto il consenso delle due amministrazioni precedenti. Adesso, seppure senza una presa di posizione netta, i nuovi dirigenti insediati da Biden contrastano questa impostazione, temendone le conseguenze a medio e lungo termine. A noi italiani sembrerebbe quasi ovvio che le confessioni ottenute notoriamente sotto tortura siano di difficile utilizzo, ma qui la questione è più complessa. I detenuti di Guantanamo sono stati tutti arrestati dai servizi segreti. I quali non vogliono fornire le prove su cui si sono basati, perché verosimilmente si tratta solo di segnalazioni ottenute da informatori. L’impossibilità di fornire riscontri fattuali, e la volontà di tutelare le identità degli informatori, e le identità degli stati che hanno collaborato “attraverso scorciatoie legali”, fa sì che, di fatto, manchino prove concrete contro gli imputati. Si deve per forza fare affidamento sulle confessioni estorte sotto tortura. Ma questo solleva un problema pratico: e se uno statunitense, diciamo un militare o un agente dei servizi, o un diplomatico, venisse arrestato all’estero, e rilasciasse delle confessioni sotto tortura, con quale autorevolezza potrebbero gli Stati Uniti pretendere la restituzione dell’arrestato se ora mettono per iscritto che le confessioni sotto tortura sono utilizzabili? L’amministrazione Biden sta cercando di “girare intorno al problema” e, pur non avendo in mente una vera soluzione, intanto non vuole una dichiarazione formale di “utilizzabilità delle confessioni”. La situazione è rimasta in stallo per diversi mesi, si è cercato di argomentare che le frasi precise pronunciate dagli imputati non potessero essere usati nello stilare una sentenza, ma si potesse comunque utilizzare “il loro senso complessivo”. Alla fine Martins si è dimesso. Il caso più importante che doveva seguire Martins era il processo Khalid Shaikh Mohammed + 4, accusati di essere le “menti” degli attentati dell’11 settembre 2001. Un sostituto di Martins non è ancora stato nominato, e quando lo sarà avrà bisogno di tempo per studiare gli incartamenti. A 20 anni dai fatti, il processo non è nemmeno iniziato.
Prima di Martins si erano dimessi altri giudici militati. Nell’aprile 2020 si era ritirato il colonnello Shane Cohen, il 3° giudice chiamato a presiedere la Commissione Militare. Anche i 2 predecessori si erano dimessi. E nel settembre 2018, un mese dopo la nomina, si era ritirato il colonnello Shelley Schools, il terzo giudice chiamato a presiedere il processo “USS Cole”. Il suo predecessore, il colonnello Vance Spath si era ritirato nel luglio 2018, non riuscendo a gestire le dimissioni di tutti gli avvocati di Abd al-Rahim al-Nashiri, processato come “mente” dell’attentato al cacciatorpediniere USS Cole che nel 2000 ha ucciso 17 marinai statunitensi. Gli avvocati, alcuni anche militari, si erano dimessi per protesta dopo aver scoperto che i loro colloqui con l’imputato venivano intercettati illegalmente. E come se le cose non si fossero complicate abbastanza, la corte federale che da Washington supervisiona i processi di Guantanamo nell’aprile 2019 aveva annullato tutte le decisioni prese da Spath negli ultimi due anni, perché l’uomo aveva annunciato le dimissioni, ma non aveva precisato che aveva già accettato un incarico come giudice dell’immigrazione. Noi non ci vediamo niente di strano nel fatto che un giudice cambi incarico, ma la corte federale ha (giustamente) eccepito che Spath per cambiare incarico aveva bisogno del consenso del Dipartimento di Giustizia, lo stesso dipartimento che gestisce anche la pubblica accusa nei processi di Guantanamo. Questo solleva un legittimo dubbio sull’imparzialità delle decisioni prese da Spath, e siccome gli Stati Uniti chiedono la pena di morte per Al-Nashiri, all’imputato devono essere fornito un “giudice inappuntabile”.