01 Novembre 2025 :
Giovanni Francesco Fidone* su l’Unità del 1° novembre 2025
Quando parlo di interdittive antimafia, e lo faccio spesso vista la mia professione, sento sempre la necessità di una premessa, per non scadere in equivoci: quella che leggerete è una critica all’istituto, per come concepito all’interno del nostro ordinamento giuridico, e non di certo alle finalità che intende perseguire. La mafia è un fenomeno che va contrastato con ogni forza e ogni strumento possibile, entro i confini del nostro stato di diritto. Ma gli strumenti delle interdittive, oltre a rivelarsi troppo spesso inefficaci sul piano pratico, determinano storture che travolgono vite di persone, aziende e diritti fondamentali.
La logica su cui si fondano questi provvedimenti è la medesima dello scioglimento dei consigli comunali ex art. 143 del Tuel, cioè quella del “più probabile che non”. Tutto si fonda su un ragionamento induttivo, di tipo probabilistico: nessun accertamento di responsabilità, in capo a nessuno, ma un atto con finalità di prevenzione che ha più o meno gli effetti della peste bubbonica.
La giurisprudenza amministrativa è piena di decine e decine di casi di aziende che sono state colpite da interdittiva per le più disparate ragioni e che sono risultate, all’esito di lunghi procedimenti giudiziari, assolutamente distanti da qualsiasi forma di contiguità mafiosa. Le conseguenze di questi provvedimenti, tuttavia, sono disastrose e comportano, letteralmente, l’interruzione della vita di aziende e imprenditori, senza limiti ragionevoli di tempo.
Se le Prefetture di tutta Italia applicano in maniera altamente discrezionale l’istituto è perché la norma lo consente. E ciò determina nelle Amministrazioni una inevitabile e comprensibile predisposizione a emettere il provvedimento, tanto, al più, sarà un Giudice Amministrativo ad annullarlo. Tanto nessuno risarcirà nessuno e nessuno pagherà per gli anni di vita di cui gli sfortunati protagonisti di queste vicende sono stati, ingiustamente, privati. Perché la tutela risarcitoria, in questo campo, è assai residuale e sono rarissimi i casi in cui all’annullamento di una interdittiva fa seguito un ristoro dei danni patiti.
Senza contare quanto statuito dal Consiglio di Stato con l’Adunanza Plenaria n. 3 del 2022: nella lettura più conforme alla norma sia chiaro, riconobbe titolo a conseguire un risarcimento dei danni solo alle società e non ad amministratori e soci. Come se questi provvedimenti non incidessero sulla vita degli amministratori, dei soci e delle persone che vivono dietro il soggetto giuridico colpito.
Nel corso della mia vita professionale ho affrontato tantissimi casi di aziende colpite da interdittiva per le più disparate ragioni e assolutamente distanti da qualsiasi forma di contiguità mafiosa. Ricordo, fra tutti, il caso emblematico dell’azienda colpita da interdittiva, a causa di un dipendente ritenuto contiguo a soggetti che avevano commesso “reati spia” e cioè sintomatici del rischio di contaminazione criminale. L’azienda licenziò immediatamente il dipendente e, oltre al contenzioso davanti ai Giudici Amministrativi, avviò una concreta opera di “self cleaning”.
Un giorno, il titolare dell’azienda invitò l’ex dipendente a un convegno organizzato da “Nessuno tocchi Caino” proprio sul tema delle interdittive: un’occasione per approfondire una questione dai contorni poco chiari, che lascia alle Prefetture campo libero alle più disparate interpretazioni sui rischi di contaminazione criminale di un’azienda. Di ritorno dal convegno, il titolare della ditta e l’ex dipendente furono fermati a un posto di blocco di routine, che si concluse dopo pochi secondi di controllo. Al momento della rivalutazione della posizione della ditta, mesi dopo, la Prefettura indicò quale indice di contiguità mafiosa il fatto che l’imprenditore e l’ex dipendente fossero insieme in auto, nonostante nel corso del procedimento amministrativo fossero state fornite tutte le giustificazioni del perché (ricevute dell’hotel, invito al convegno sulle interdittive, locandine).
Non mi stanco di dirlo: il nostro paese ha bisogno di strumenti concreti ed efficaci nella lotta alla criminalità organizzata e non di quello che spesso si trasforma in una caccia alle streghe. Sarebbe ora di ancorare l’emissione dell’interdittiva a presupposti giuridici certi, che siano rigidamente tipizzati o, ancora, sarebbe ora di introdurre strumenti di limitazione della discrezionalità di cui godono le Amministrazioni e di far prevalere il principio di certezza del diritto.
E allora, le associazioni, i partiti, i movimenti, possono farsi propulsori di una battaglia di civiltà, perché l’istituto diventi autentico presidio di legalità e venga per questo opportunamente rivisto nelle aule a ciò deputate. E, soprattutto, perché prevenire non diventi, davvero, peggio che punire.
* Avvocato amministrativista









