CONDANNATO A MORTE IL PRESIDENTE CHE HA SALVATO I CONDANNATI A MORTE

Joseph Kabila

11 Ottobre 2025 :

Elisabetta Zamparutti su l’Unità dell’11 ottobre 2025


Il 30 settembre è giunta una notizia paradossale: l’ex presidente della Repubblica Democratica del Congo Joseph Kabila è stato condannato a morte in contumacia da un tribunale militare che lo ha riconosciuto colpevole di crimini di guerra, tradimento e crimini contro l’umanità. Spiegare il paradosso comporta un racconto intenso, lungo, denso come il sangue e faticoso come il caldo africano. Un racconto che procede lento secondo un ritmo tanto legato a questo continente quanto alle saghe familiari.
Joseph Kabila, è figlio di Laurent Kabila. Laurent era alleato del leader anticolonialista Patrice Lumumba che molti ricordano come il Primo Presidente della Repubblica Democratica del Congo. Lo fu per pochi mesi perché il suo stesso capo di stato maggiore Mobutu Sese Seko ordì un colpo di Stato per rimuoverlo, che si concluse con l’esecuzione di Lumumba per mano di un plotone in Katanga. Laurent Kabila vagò allora nelle giungle organizzando forze ribelli a capo delle quali, nel 1997, depose Mobutu che nel frattempo aveva governato in un modo che, per essere definito, necessitò l’invenzione di una parola nuova: cleptocrazia. Laurent non uccise Mobutu, né lo fece uccidere. Lo espulse dal Paese.
Divenuto Presidente, Laurent Kabila morì assassinato, il 16 gennaio 2001, da una sua guardia del corpo, poi immediatamente freddata. In una decina di giorni, fu designato proprio il figlio di Laurent, Joseph Kabila, quale Presidente della RDC. Era il 26 gennaio 2001. Joseph non aveva neanche trent’anni. Ventinove anni per l’esattezza, vissuti tra i fucili. Forse anche per questo, ripeteva “basta con le armi”. Cercò e ci riuscì a mettere fine alla guerra civile. Diede al Paese una nuova Costituzione. Sventò colpi di Stato. Affrontò con successo varie competizioni elettorali ma acconsentì l’alternanza democratica, per la prima volta in questo Paese, quando a vincere nel 2018 fu Felix Tshisekedi.
Joseph incontrò Nessuno tocchi Caino. Lo fece all’indomani della “giustizia” resa agli assassini del padre nel 2003 da parte di un tribunale militare che condannò a morte una trentina di uomini. Joseph ci ricevette – Aldo Ajello, Emma Bonino, Sergio D’Elia ed io – nel palazzo presidenziale a Kinshasa, il 28 giugno 2003. Gli chiedemmo l’atto più difficile per un uomo: la clemenza per chi era stato ritenuto responsabile della morte del padre. Ci promise che non li avrebbe giustiziati e che avrebbe mantenuto una moratoria della pena di morte rimettendo al Parlamento la più generale decisione sull’abolizione. Ci permise poi di incontrare i condannati a morte nel carcere di Makala.
Jospeh Kabila ha governato dal 2001 al 2019 e durante tutto questo tempo ha mantenuto la moratoria delle esecuzioni costruendo un equilibrio capace di contemperare la giustizia penale. E quell’atto di clemenza che gli chiedemmo, è come se l’avesse lasciato in consegna al suo successore, Felix Tshisekedi, primogenito di Étienne Tshisekedi, tre volte Primo Ministro con Mobutu, di cui poi divenne oppositore fondando il partito UPDS, d’ispirazione nonviolenta, socialista e democratica. Sembrava esserci una convergenza sulla contrarietà alla pena di morte. Tant’è che il 30 giugno 2020, in un atto di grande e ampia amnistia, Felix commuta le condanne a morte in ergastoli e poi decreta, il 31 dicembre 2020, per i detenuti che a quella data avessero trascorso in carcere 20 anni, la liberazione.
Nel frattempo, il Parlamento, che in 18 anni non ha saputo abolire la pena di morte, non ha esitato, su ordine del governo, a revocare l’immunità parlamentare al senatore a vita Joseph Kabila. Così, lo scorso 30 settembre, al termine di un’udienza durata solo cinque ore, il presidente dell’alta corte militare, tenente generale Joseph Mutombo Katalayi, ha potuto pronunciare questa sentenza: “in applicazione dell’articolo 7 del Codice penale militare, si impone una sola pena, la più severa, ovvero la pena di morte senza attenuanti” nei confronti di Joseph Kabila per crimini di guerra, stupro, tortura, tradimento, organizzazione di un movimento insurrezionale e cospirazione. Il caso nasce dal suo presunto ruolo nel sostenere l’avanzata dei ribelli dell’M23, sostenuti dal Ruanda, nell’instabile regione orientale del Kivu in Congo. Kabila non ha partecipato al processo, né ha voluto difendersi con un avvocato. Non si sa dove sia. Mentre sappiamo che quel ferro vecchi o della storia che è la pena di morte è ancora lì, pronto a essere usato per i più disparati fini, anche l’intimidazione politica, con il rischio, vista tutta la ruggine che si porta dietro, di infettare però chi lo tocca.
Concludo con un appello. Al Presidente Felix Tshisekedi, all’Unione Africana, all’Unione Europea, ai Capi di Stato e di Governo che lo hanno conosciuto e stimato quando era Presidente, chiedo di salvare Joseph dalla pena di morte, la pena che lui ha risparmiato anche agli assassini di suo padre e che ora si vuole sia inflitta a lui.

 

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