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I PAZIENTI DETENUTI DOVREBBERO ESSERE SCARCERATI E CURATI A CASA

1 agosto 2025:

Federico Zanon*

Pare che finalmente il ministro Nordio e il suo ministero abbiano preso atto che il grave sovraffollamento carcerario si può risolvere solo liberando persone detenute. La scelta dovrebbe ricadere sui circa 10.000 detenuti con pene inferiori a due anni, che saranno destinati a misure alternative. Si calcola che tra questi il 25% siano dipendenti da sostanze, e per loro il Ministro immagina la comunità terapeutica. Ora, la comunità terapeutica è un trattamento sanitario, che deve rispondere a un criterio di appropriatezza clinica valutato da equipe sanitarie. Non è detto che per tutti i dipendenti da sostanze detenuti la comunità sia l’intervento clinicamente più appropriato: per molti di loro potrebbe essere più appropriato un programma ambulatoriale o diurno, con collocazione presso la propria abitazione.
Inoltre, le cure devono essere disponibili: è inutile prospettare a un paziente italiano l’ultimo farmaco d’avanguardia per una patologia tumorale, se è disponibile solo negli USA. Sappiamo benissimo che i posti in comunità terapeutica sono largamente inferiori al fabbisogno. Appropriatezza e disponibilità impattano sull’equità: in una sanità con risorse limitate, è importante dare a ciascun paziente solo la cura adatta, per non sottrarre cure ad altri che potrebbero beneficiarne o averne più bisogno. Tutto questo conduce a una sola conclusione: la scarcerazione dei dipendenti da sostanze detenuti per seguire programmi terapeutici in misura alternativa dovrebbe avvenire senza preconcetti, sulla base di valutazioni cliniche, considerando la possibilità di programmi ambulatoriali e diurni con rientro al domicilio.
Non si dovrebbe proporre la comunità terapeutica a un paziente dipendente da sostanze che sta in carcere, quando mai la proporremmo se non fosse detenuto. Questa attitudine cautelativa di proporre in modo non appropriato la comunità terapeutica a pazienti detenuti, è purtroppo diffusa anche fra gli operatori dei SerD. Ma non risponde a logiche di cura, bensì di controllo sociale, a cui un sanitario non dovrebbe prestarsi. Questo tipo di atteggiamento nasconde, a mio avviso, un pregiudizio verso le persone dipendenti da sostanze e verso le comunità: che il dipendente da sostanze detenuto debba comunque espiare la pena chiuso da qualche parte, e che la comunità possa essere un luogo coercitivo. Non piace l’idea del dipendente da sostanze in misura alternativa che viene curato ambulatorialmente, che può andare a farsi la spesa da solo al supermercato e che sconta la pena a casa propria, magari socializzando con i vicini e facendo volontariato alla parrocchia dove giocano i nostri bambini.
Che lo pensi il ministro della giustizia è però nell’ordine delle cose: quello si occupa di giustizia. Il dramma è quando lo pensano i sanitari, che invece dovrebbero occuparsi solo di salute e non impicciarsi dei fatti della giustizia né, tantomeno, vestire i panni del giudice. Partendo dall’assunto che nessun sanitario può essere favorevole al carcere, perché nessun sanitario può concordare con un sistema che espone i propri pazienti a un ambiente iatrogeno, credo sia ora che come professionisti della salute ci riappropriamo della nostra funzione politica e non ci limitiamo a fare i tecnici della sopravvivenza del condannato.
Il che significa accogliere con favore la possibilità prospettata dal ministro Nordio di liberare i nostri pazienti dall’ambiente iatrogeno in cui sono trattenuti, ma prospettare che la cura e il recupero non passano necessariamente dalla coercizione, né tantomeno occupando posti in comunità terapeutica in modo inappropriato, e che si può fare cura e recupero anche tornando a casa, svolgendo programmi diurni e ambulatoriali che prevedano la partecipazione sociale e non prolunghino irragionevolmente l’isolamento. Mi spingo oltre: come sanitari dovremmo avere il coraggio di dire che nessun paziente dovrebbe restare in carcere, perché è luogo che ammala e non cura. E che se le cure ambulatoriali sono le più appropriate per la maggior parte dei dipendenti da sostanze non detenuti – queste sono le statistiche della popolazione seguita dai SerD – non si vede perché la stessa statistica non debba valere per i nostri pazienti detenuti. L’epidemiologia non discrimina. Sono le persone a farlo.

* dirigente psicologo SerD

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