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BASTA CLEMENZA, RIAPRE IL PATIBOLO A MYANMAR

18 giugno 2022:

Sergio D’Elia su Il Riformista del 17 giugno 2022

“Ordine e disciplina”, è l’imperativo che da almeno ottanta anni connota la storia della Birmania, una terra straordinaria per l’estrema varietà di forme di vita e l’apparente anarchia delle oltre cento diverse etnie. In questo mare di biodiversità la religione ufficiale è il Buddismo Theravada, la “via degli anziani”, che tra le più antiche scuole ispirate alla vita del Buddha è la più ostile al cambiamento e la meno compassionevole. Il potere politico – quello ufficiale e quello di fatto – è sempre stato nelle mani dell’esercito. E, come quella degli anziani, anche la “via dei militari” è sempre stata ostile ai cambiamenti e poco incline alla compassione.
L’unico “significativo” cambiamento è avvenuto nel 1989 quando l’allora giunta militare cambiò nome al Paese. “Birmania” era stato imposto dai coloni inglesi e si riferiva ai “birmani”, l’etnia prevalente. Col nuovo nome, “Myanmar”, i generali hanno tenuto conto dei 135 gruppi etnici riconosciuti nel Paese, ma poi hanno continuato la guerra senza quartiere contro di loro. Anche quando il potere formale per un po’ è stato nelle mani di un Premio Nobel della Pace, i militari non hanno smesso di opprimere i Karen, i Kachin, gli Shan e i Rohingya, la popolazione musulmana forse più perseguitata al mondo. Hanno cambiato il nome del Paese, ma hanno continuato in tutti i modi a distruggere ogni specificità etnica. L’unica biodiversità a cui sono rimasti interessati è quella delle ricche risorse naturali, il legname, il gas, le pietre preziose, l’oro che le zone abitate da queste etnie offrono.
La politica “ordine e disciplina” delle forze armate è continuata fino ai giorni nostri e, dopo il colpo di stato del gennaio 2021, si è dedicata alla repressione violenta delle manifestazioni antimilitariste, ai processi nei tribunali militari e alle condanne a morte dei seguaci di Aung San Suu Kyi, arrestata subito dopo aver vinto le elezioni. Da allora, almeno 114 prigionieri sono stati condannati a morte, inclusi studenti e attivisti antimilitaristi, anche minorenni. Arrestati, torturati, processati per terrorismo davanti al tribunale speciale e, senza garanzie minime di difesa, condannati a morte. Il 4 giugno scorso, la giunta birmana ha annunciato che avrebbe giustiziato quattro di loro, tra cui l’ex parlamentare Phyo Zeya Thaw e il veterano attivista per la democrazia Ko Jimmy, due figure molto popolari, care a molti in Birmania e considerate dall’opinione pubblica simboli della continua resistenza al regime militare.
Coi loro processi, è finito anche il tempo della clemenza, la breve parentesi di misericordia aperta e subito chiusa dal Presidente Thein Sein dopo decenni di repressione sotto i regimi militari precedenti. Da quando si era insediato nel marzo 2011 e fino alla fine del suo mandato nel marzo 2016, nel tentativo di una riconciliazione nazionale, Thein Sein aveva emanato sei amnistie generali: migliaia di prigionieri, tra cui centinaia di condannati del braccio della morte, erano stati graziati.
Nonostante la condanna internazionale e gli appelli alla clemenza, la giunta del Myanmar ha promesso di eseguire le condanne a morte di Ko Jimmy, Ko Phyo Zeya Thaw e di altri due prigionieri, Hla Myo Aung e Aung Thura Zaw, condannati a morte per aver ucciso una spia dei militari. “Le esecuzioni andranno sicuramente avanti. Non ci sarà pietà per i condannati a morte. Hanno terminato il processo di appello e saranno impiccati secondo le procedure carcerarie”, ha comunicato il portavoce dei militari. Sarebbero le prime esecuzioni giudiziarie del Paese dal 1990.
Non bisogna arrendersi a questo corso naturale della violenza del potere militare in Birmania. C’è un’altra legge, c’è un altro ordine, c’è un’altra disciplina da far rispettare e che possiamo invocare per disarmarlo. Sono la legge, l’ordine e la disciplina tendenti all’armonia, fondati sull’amore, sulla forza dei diritti umani universali! Un anno fa, una suora, in ginocchio dinnanzi alla polizia, ha compiuto il “miracolo” di fermare, per un giorno, la legge marziale. In quella giornata felice, gli agenti in assetto anti-sommossa hanno smesso di sparare sui civili che manifestavano nel nome della libertà e dei diritti umani. È la forza gentile, inerme ma non inerte, della nonviolenza che fa miracoli: la forza di chi non mostra i muscoli, ma non smette di lottare; la forza di chi ama, con speranza, anche il proprio avversario disperato.
Come diceva Mariateresa Di Lascia, la nonviolenza non è tolleranza: non sopporta cose, fatti, situazioni che sono intollerabili; non significa “tollĕre”, levare lo sguardo, voltarsi da un’altra parte. Se, in queste ore, saremo capaci di “commuovere”, “muovere insieme”, volgere la nostra vita, la nostra mente, il nostro cuore, le nostre mani nel senso dei condannati in Birmania, ma anche nel senso, non contro il potere di Myanmar, un altro “miracolo”, un’altra tregua della legge marziale è ancora possibile. È possibile che un’unica coscienza dell’universo, un comune senso di umanità, emergano di nuovo.

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